Il piacere e la forza. Intervista ad Alexandra Grimal.

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Il piacere e la forza. Intervista ad Alexandra Grimal.


Non abbiamo a che fare con un fenomeno effimero o isolato: ad ingrossare le fila delle strumentiste jazz, in particolare delle sassofoniste, la francese Alexandra Grimal offre un fuorviante aspetto da giovanissima piccola Hobbit degli strumenti d’ottone, impressione rapidamente fugata dalla discografia solidamente messa insieme in pochissimi anni, dalle leadership carismatiche con sidemen multi-stile e di origine differenziata, e soprattutto dalla maturità acquisita in ambito compositivo ed in particolare esecutivo, che hanno già fatto archiviare l’appellativo di “Tony Malaby francese”, dato il crescendo di sperimentazioni e testimonianze. Alternando una personale visione degli standards al free, con fianchi molto aperti alle avanguardie, incontriamo Grimal subito dopo la riedizione di quel Owls Talk che la vide prodursi alla pari con Konitz, Peacock e Motian, e alla vigilia del suo imminente Andromeda, con un rinnovato quartetto statunitense. Conversazione vissuta e coinvolgente con un’artista usa a spendersi con intensità e apparentemente senza tempi morti, testimonianza del piacere e della forza (e perché no, del rischio) di vivere con partecipazione l’arte e la vita del jazz: al femminile, e non soltanto.



Jazz Convention: Potremmo già contare molti nomi: con Esperanza Spalding, Suzie Ibarra, nel tuo ambito-sassofono, Matana Roberts etc., sembra che la lista delle giovani continui a crescere…


Alexandra Grimal: Si! Ci sono sempre più donne, in questo mestiere. Ed è una gioia.



JC: Dopo i tuoi studi di sassofono classico, hai studiato jazz al Conservatorio dell’Aja con uno stimatissimo Maestro: John Ruocco.


AG: John è stato per me un maestro. Ho studiato per quattro anni con lui: mi ha permesso di aprirmi nella musica. È lui che mi ha dato l’energia di continuare. Ascoltandolo suonare, mi sono resa conto che la bellezza era possibile e reale. È stato per me una fonte, rivelandomi settimana dopo settimana le infinite possibilità della musica. È un artista in costante ricerca, umile e profondo.



JC: Parliamo del sassofono – fisica, tecnica, feeling etc.


AG: Il sassofono era per me LO strumento del jazz, vedi il suono di Coltrane al vero inizio. Ti permette di suonare in modo molto virtuoso e nello stesso tempo a nudo. Una ricca varietà di timbri, una sensazione di legno e metallo.



JC: Quanto al tuo stile, sono stati citati grossi esponenti del passato e del presente – da Wayne Shorter a Mark Turner, etc.


AG: Sono influenzata da una grandissimo numero di sassofonisti, ma anche da altri strumentisti, o cantanti. Ho bisogno di nutrirmi di approcci diversificati, in generale di musicisti molto intensi, che corrispondono alla mia maniera di vivere e alla mia visione dell’arte. Amo molto Wayne Shorter, inutile dirlo, ma anche Ornette Coleman, Steve Coleman, Tim Berne, Dexter Gordon, è innanzitutto un suono che mi piace, e dopo la visione che vi si accompagna. Trovo anche Mark Turner impressionante per la sua concentrazione.



JC: Si è voluta trovare una particolare analogia con un altro omologo: Tony Malaby.


AG: Non è la prima volta che mi si paragona a lui… che purtroppo ho ascoltato molto poco. L’ho incontrato, senza preavviso: e abbiamo simpatizzato. Mi piacerebbe che si potesse suonare insieme un giorno; del resto, siamo nella stessa etichetta…



JC: Tra le tue collaborazioni abbiamo anche riscontrato John Betsch e Jean-Jacques Avenel – insomma, i confratelli di un padre di uno dei tuoi strumenti: Steve Lacy.


AG: Ho avuto la fortuna di poter suonare con questi due musicisti: sono in interazione costante l’uno con l’altro, è qualcosa di molto particolare. Amo davvero molto Steve Lacy, ma non è la mia principale influenza al soprano (che sarebbe piuttosto Shorter, oltre a Miles, per il tocco)… Ho comunque molta ammirazione per le sue cose, sempre di grande ispirazione ed espressive.



JC: Qual è il tuo atteggiamento nei confronti della classicità del jazz?


AG: Amo la storia di questa musica pertanto amo suonarla, nondimeno dipende molto da con chi si fa. Io sono nata musicalmente da questa storia che mi ha sempre nutrita. Adesso le influenze sono molteplici, in particolare grazie alla musica contemporanea. Sono una musicista del presente, dunque il mio lavoro si inscrive entro un suono di vita contemporanea. Ma per me suonare anche degli standards mi fa riflettere, e continuamente riconsiderare il mio modo di suonare.



JC: Il jazz dell’Esagono conta ormai varie generazioni di jazzmen (da Reinhardt, Grappelli, Solal, Humair, Texier, fino ai più giovani Trotignon, Truffaz, Chassy etc etc) – si può parlare di elementi “francofoni” nel tuo jazz (o, come spesso succede, generi e generalizzazioni hanno poco senso?)


AG: Ogni musicista è veicolo di modi di pensare differenti a seconda del paese d’origine. Sensazioni, magari un quotidiano, gusti alimentari! Tuttavia, io credo piuttosto in un’arte universale. Ossia, un artista lo si ascolta senza pensare al paese da cui proviene. Il suo linguaggio non si situa ad un li vello culturale. Egli (o ella) “è”; sublima la forma e s’indirizza all’Uomo, poco importa da dove venga.



JC: Sembri piuttosto appagata ed orgogliosa dei tuoi partner e delle tue formazioni.


AG: Sono stata piuttosto appagata dal mio gruppo con Nelson Veras, Dré Pallemaerts et Jozef Dumoulin, con cui sono adesso in sala d’incisione. I componenti del mio quartetto Seminare Vento (Giovanni di Domenico, Manolo Cabras e João Lobo) li ho incontrati in Olanda oltre dieci anni fa: musicalmente, siamo cresciuti insieme e posso dire che mi hanno cambiato la vita. È stato Manolo Cabras, il contrabbassista, a farmi conoscere Lee Konitz, Gary Peacock, Paul Motian e Ornette Coleman. I miei progetti come side-woman sono molto numerosi: amo suonare la musica delle persone che mi toccano, in parallelo allo sviluppo della mia personale.



JC: Hai già incontrato partner italiani (oltre a fare molti concerti da noi): sei interessata ad attività nel nostro paese?


AG: Ho suonato in Italia a varie riprese, e ho già nominato i meravigliosi musicisti di un mio quartetto, il contrabbassista sardo Manolo Cabras e il pianista romano Giovanni di Domenico. Ho suonato con altri sardi, quali il pianista Matteo Carrus, Augusto Pirodda, e poi i batteristi Antonio Pisano e Carlo Sezzi e molti altri ancora. Mi sento molto vicina al loro modo di suonare.



JC: Hai praticato grosse frequentazioni scandinave: ecco che torna, l’Avanguardia del Nord…


AG: Penso che la scena scandinava sia molto ricca. Laggiù ho incontrato un sacco di musicisti incredibili. Si tratterà del clima, la natura, il silenzio: la gente lì suona in un modo diverso. Mi piace davvero molto andare a suonare lì, mi dà voglia di scrivere, e di proseguire la ricerca sul suono.



JC: Hai già partecipato a molte registrazioni. Vorremmo parlare del tuo primo Shape.


AG: Shape è uno dei gruppi che per me contano di più, costituito da Antonin Rayon all’organo Hammonde e da Emmanuel Scarpa alla batteria. L’album è un live al Sunset ed è tutto improvvisato. Si tratta di tre voci che si mescolano costantemente, e di una visione dell’improvvisazione di forme estese, come se fossero state scritte. È un disco di cui sono particolarmente felice e che corrisponde ad un lavoro iniziato numerosi anni prima.



JC: Dunque, la grande avventura americana di Owls Talk.


AG: È stato meraviglioso! Quanto alla preparazione, in particolare Lee Konitz ha dovuto impegnarsi poiché alcune mie composizioni a due sassofoni erano difficili, in particolare Breaking Through e Awake, le cui strutture sono complesse. Ma è vero che su Horus, Gary Peacock ha semplicemente apportato la sua linea di basso: così, a me non rimaneva altro che suonarci sopra! Sono stata molto toccata dalla gentilezza e dall’apertura di spirito di tutti e tre i musicisti (oltre ovviamente a Paul Motian). È stato un incontro umanamente prezioso… e straordinariamente semplice.



JC: Eccoci quindi alla vigilia del nuovo quartetto con Andromeda.


AG: Il disco presenta una serie di constellazioni e personaggi della mitologia greca, composti specialmente per gli interpreti: Todd Neufeld alla chitarra, Thomas Morgan al contrabbasso e Tyshawn Sorey alla batteria. Con Todd e Thomas c’incontravamo per suonare da due anni, avevo incontrato Thomas poiché suonava con Nelson Veras e Steve Coleman. Con Todd, ci siamo incontrati a Brooklyn, quando vivevo a New York già da due anni. Ho iniziato molto presto a scrivere per lui.



JC: E i tuoi progetti futuri?


AG: Sto attualmente registrando Dragons, insieme a Nelson Veras, Dré Pallemaerts et Jozef Dumoulin, le mie composizioni scritte pour loro, per un disco che uscirà fra circa sei mesi per l’etichetta Aparté. Ti ho già ricordato che il mio Owls Talk è stato appena ripubblicato, nel giugno 2012, per la stessa etichetta. Voglio anche registrare il mio progetto solo The monkey in the abstract garden; ho anche un progetto, Black Dragon, ci cui riparleremo presto.



JC: Insomma, la tua idea del jazz dev’essere ben ampia…


AG: Si! Per me è molto semplice, la musica è una forma, ne condivido l’essenza con le persone che mi piacciono, ed essi possono ben provenire da jazz diversi.



JC: Infine, quale bilancio trai del mestiere “della” musicista?


AG: Ma mi sembra che sia come quello “del” musicista! Pieno di rischi e d’incognite, ma soprattutto di gioie e soddisfazioni che valgono tutto questo lavoro. Sono consapevole del difficile contesto attuale, e talvolta nutro dei dubbi, ma vado avanti perché io amo ciò: fare musica è una necessità! È un mestiere difficile, ma così bello! Il lavoro è infinito, e sempre rimesso in causa. Bisogna aver voglia di cercare, e forse di trovare cose che non ci si aspettava di trovare, ma che sono ancora più sorprendenti e belle di quelle che ci s’immaginava. È una libertà ed una grandissima forza.