Il senso delle canzoni. Intervista a Sarah Jane Morris

Foto: Fabio Ciminiera





Il senso delle canzoni. Intervista a Sarah Jane Morris.

Pescara, Etnomusic 2012 @ Auditorium Flaiano. 19.4.2012


Sarah Jane Morris si è esibita a Pescara nell’ambito di Etnomusic 2012, insieme al chitarrista Tony Remy e al sassofonista Michael Rosen. Il giorno dopo il concerto abbiamo parlato con lei dei suoi due lavori più recenti – Where it hurts e Cello songs – e dei progetti in via di realizzazione.



Jazz Convention: Partiamo dalle canzoni e, in particolare, le due maniere diverse di avvicinarsi alle canzoni presenti nei tuoi ultimi dischi. In Where it hurts hai cantato le tue canzoni mentre in Cello Songs principalmente hai interpretato brani di altri compositori.


Sarah Jane Morris: Where it hurts nasce dalla mia collaborazione con Dominic Miller: abbiamo cominciato a scrivere dei brani che riguardassero la fine di un matrimonio, ma poi ci siamo allargati a tutto quello che provoca sofferenza nel mondo, per le persone, per il pianeta e per i sentimenti. È diventato una sorta di commento sociale di quello che viviamo oggi. La registrazione poi è avvenuta dal vivo con la mia band e questo ha dato un suono molto concreto e presente alla musica. Cello songs, invece, è stato concepito in Italia ed è il frutto della mia collaborazione con il violoncellista e arrangiatore Enrico Melozzi. Abbiamo deciso di celebrare il matrimonio tra la voce e il violoncello. La formazione presente nel disco vede insieme un’orchestra di violoncelli, alcuni jazzisti italiani (Fabrizio Bosso, Toni Fidanza e Danilo Rea, tra gli altri – n.d.r.) e, infine, me e Dominic Miller. L’idea era quella di interpretare brani meravigliosi come il Claire de lune di Claude Debussy o il tema di Once upon a time in America di Ennio Morricone: le abbiamo fatte di diventare delle canzoni e ho scritto un testo su queste musiche. In qualche maniera è stato anche un modo per “collaborare” con questi grandi compositori (sorride, ndr). Inoltre Boy George ha scritto She always appositamente per me e ci sono diversi brani originali. E poi abbiamo interpretato Fast Car di Tracy Chapman, Blower’s Daughter di Damien Rice, Blue Valentine di Tom Waits: sono sempre stata una fan di Tom Waits e l’avevo già incisa tempo fa, in Blue Valentine un disco registrato dal vivo al Ronnie Scott’s di Londra. In effetti Enrico ed io ci siamo incontrati proprio grazie a questa canzone e per questo abbiamo deciso di registrarla di nuovo.



JC: Quali sono i motivi che ti portano a scegliere un brano di un altro compositore? Immagino che la scelta di una canzone implichi anche il fatto di pensare a come renderla tua.


SJM: Credo che abbia senso interpretare una canzone di un altro autore solo se se ne da una versione differente. Si potrebbe dire che l’interpretazione che di una canzone da il proprio autore è quella giusta. Allo stesso tempo, però, se si tratta di una bella canzone, molte persone ne daranno la propria visione. A me interessa dare la mia interpretazione, rendere quel brano mio, in qualche modo. Credo davvero sia questa la linea guida nell’avvicinarsi a una canzone. Non c’è un “tipo” specifico di canzone per la mia interpretazione: un elemento che conta molto per me è il testo. Cantare in qualche modo vuol dire recitare il testo e entrare nel significato delle parole vuol dire già interpretare la melodia. Il significato di una canzone è molto importante per me.



JC: Il significato e il suono di una canzone possono però variare con il tuo intervento. Se penso al concerto di ieri sera, una formazione ridotta a voce, sax e chitarra e con un suono così intimo offre alle canzoni possibilità diverse dall’esibizione di una band al completo.


SJM: Ho lavorato con alcuni dei musicisti più grandi al mondo, a prescindere da quanto fossero famosi. Mi piace molto pensare al fatto che quando metti insieme una particolare formazione, le canzoni cambieranno. Questo dipende da tanti fattori: dal pubblico, dall’atmosfera della serata, da come si sentono i musicisti la sera del concerto. Giorni fa ho suonato con una formazione del tutto diversa, con pianoforte, basso acustico e sassofono: naturalmente il concerto era differente da quello che hai sentito ieri sera. Ho sempre lasciato ai musicisti che lavorano con me la libertà di cambiare e di intervenire sulle canzoni e questo, credo, rende loro piacevole suonare insieme a me. Noi stessi cambiamo e non siamo mai gli stessi, giorno dopo giorno. In qualche modo controllo quello che avviene sul palco con il movimento delle mani: se sento che quello che avviene sul palco, alle mie spalle, non si sposa con il mio modo di sentire, di pensare, la canzone, lo faccio capire ai miei musicisti con i movimenti delle mani. Naturalmente non sto mettendo in dubbio le loro capacità musicali. E come se dicessi: sento che questo colore o questa prospettiva non vada bene in questo punto. I miei compagni di palco si rendono conto che non voglio essere rude o bloccare il loro contributo. Diventa una questione di fiducia reciproca e, con il tempo, ho conquistato la loro fiducia. Anche perchè spesso avviene qualcosa di inaspettato che si coniuga in modo perfetto, invece, con il senso e l’atmosfera del brano e mi piace che la cosa si sviluppi, la lascio andare: è come se fosse una tavolozza di colori. Il mio controllo si basa sul mio ascolto, è una questione di orecchio.



JC: Durante il concerto hai messo spesso in risalto il significato sociale delle canzoni, hai parlato di omofobia e di altri importanti aspetti civili. quanto è importante per te tutto questo?


SJM: È davvero molto importante. Quando ho cominciato ad interessarmi di musica, avevo diciassette anni e al college studiavamo Brecht: mi sono avvicinata alla musica del suo teatro, all’incontro tra Brecht e Kurt Weill. Il contenuto sociale – che aveva una prospettiva socialista – mi colpì molto: la mia “politicizzazione” è avvenuta quindi attraverso Brecht. Col tempo sono diventata una sostenitrice del Labour Party e, nel modo di condurre e pensare la mia vita, posso affermare di essere socialista – anche se, al giorno d’oggi, non esiste il socialismo – e di seguire dei valori socialisti. Perciò ho scritto brani dal contenuto sociale e ne ho interpretati molti composti da altri autori: soprattutto dopo i quarant’anni ho sviluppato questo aspetto. Io non ho risposte da fornire: come cantautrice devo rappresentare quello che accade intorno a noi, quello che sento. Sottopongo al mio pubblico delle domande e ho il dovere di rispettare l’intelligenza delle persone e quindi dialogare con loro, dire quello che sento e che penso e chiedere il loro punto di vista o, quanto meno, farli riflettere.



JC: Ieri a bordo palco mi hai parlato di nuove idee e intenzioni musicali.


SJM: Dal momento che non ho la televisione a casa, ho la fortuna di poter essere creativa senza un intervento troppo invasivo dei media, ne ho davvero tante, in effetti. Sto scrivendo i brani per un disco di blues, con Tony Remy e Dominic Miller. Dominic è in tour con Sting per cui buona parte del lavoro la stiamo portando avanti via web. Sto anche scrivendo musica per un disco sull’Africa, sempre insieme a Tony Remy. I testi parlano della situazione africana, della corruzione politica che affligge i vari paesi e di altri temi che vogliamo mettere in risalto: l’album esplorerà i diversi paesi africani, sia per quanto riguarda le influenze musicali che il contenuto dei testi. Sto anche mettendo su un nuovo progetto con Antonio Forcione, un fantastico chitarrista italiano che vive a Londra, in una direzione sonora del tutto diversa: una definizione della musica che facciamo potrebbe essere spoken word, infatti parlo sulla musica infatti più che cantare e il nostro riferimento, se vuoi, è Gil Scott-Heron o, meglio, una nostra visione con la prospettiva di oggi di quel filone musicale. Naturalmente, c’è una forte visione politica nei brani: ci sono canzoni che parlano di omofobia, di rifugiati politici, di prostituzione, delle ossessioni dei nostri tempi. La spoken word è una formula che mi permette di coprire diversi territori. E, infine, sto recitando in un film diretto da Chris Ward, in cui interpreto una story-teller cieca, ma sul quale al momento non posso dire molto altro.