Dakota Staton, una jazz singer da riscoprire

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Dakota Staton, una jazz singer da riscoprire



Di Dakota Staton in Italia non si sa quasi nulla; alla grande vocalist afroamericana (1930-2007) persino Luciano Federighi, forse il massimo vociologo internazionale, dedica solo poche righe (e un solo album nelle discografie), risalendo addirittura al suo primo importante libro Cantare il jazz (1986), cogliendone però l’assoluta singolarità, quindi definendola un po’ crudelmente “matronale vamp di Pittsburgh che a un’ispirazione analoga a quella di Ernestine Anderson sovrappone un volgare, erotico bamboleggiare (cruda risposta negra a Julie London) più tardi riscattato nello shout del blues”. Per il critico la voce di Dakota è felina e dal taglio ritmico un po’ frettoloso, tuttavia lei e poche altre “sfuggono all’anonimato degli ultimi anni in cui cantare il jazz, o quasi, rappresenta ancora un’operazione con qualche sbocco commerciale”, rendendosi insomma conto che la Staton “appartiene alla numerosa famiglia di cantanti della hollywoodiana Capitol, per la quale realizza svariati album di successo, colmi di standard e blues ballad rivisitati a luci violette”.


Ora per meglio comprendere il talento della cantante, arriva in soccorso, distribuito in Italia dall’Egea, il doppio CD francese Dakota Staton The Complete 1954-1958, che antologizza quattro LP fondamentali – The Late Late show, In The Night, Dynamic! e Crazy He Call Me – a fare di Dakota Staton (1930-2007) e che lascia stupefatti per la bellezza della voce di questa autentica jazz singer nata il 3 giugno 1931 (o 1930 come dicono alcune fonti) a Homewood (nei pressi di Pittsburgh in Pennsylvania), attirata dalla musica sin dalla più tenera età, già protagonista da teen ager con l’orchestra del liceo, e quindi brillante allieva alla Fillion School Of Music di Pittsburgh. A soli sedici già debutta in ambito professionale, cantando nello spettacolo Fantastic Rhythm, per essere assunta con un contratto di due anni quale vocalist della big and di Joe Wespray, un jazzman molto noto nella zona di Pittsburgh stessa. Stabilitasi a Detroit, Dakota quindi lavora al Flame Show Bar, uno dei luoghi più frequentati in città e al contempo effettua diversi spostamenti tra Canada e Stati Uniti.


Nel 1954, durante un ingaggio al club di Harlem Baby Grand, viene notata dal famoso bandleader, ballerino e disc jokey Willie Bryant celebre anche con l’appellattivo The Cool Cat, che di lei parla in radio con toni alquanto elogiativi. Dopo tali complimenti, Dave Cavanaugh (1919-1981) della A&R (Artists And Repertory) va quindi ad ascoltarla dal vivo, con l’orecchio del sassofonista navigato, grazie ai trascorsi nelle orchestre di Eddie Miller, Bobby Sherwood, Benny Carter, Woody Herman, Julia Lee ed Ella Mae Morse; Cavanaught tra l’altro è presente con la sua band nella raccolta Arthur Murray Rock’N’Roll (1955) molto amata tra i fans della nuova musica; e come produttore registra per jazz vocalist come Nancy Wilson, Plas Johnson, Peggy Lee e Frank Sinatra; è anche l’arrangiatore della big band di Count Basie che accompagna, senza però il leader, il grande Nat King Cole nell’hit Welcome To The Club (1958); Cavanaught insomma conosce i trucchi del mestiere e riesce senza difficoltà a valorizzare il potenziale della giovane Staton alla quale propone di incidere, fin dal 1954, i due singoli What Do ou now Abou Love e You’re My Heart’s Delight che le valgono la qualifica di Miglior Giovane Promessa dell’Anno sulla prestigiosa rivista jazz Down Beat: un risultato meritatissimo poiché i dischi rivelano una cantante già maestra della propria arte.


E senza farsi attendere, Dakota dà prova di swing, di carattere e di entusiasmo, fino a collocarsi, stilisticamente parlando, a livello di una Ruth Brown, dalla quale eredita i tipici preziosismi vocali, benché sappia anche valorizzare, con gusto sicuro, la linea melodica di ballad lente. Per il lancio discografico, tra il 1956 e il 1957 la Capitol edita diciassette titoli, disseminati tra vari 45 giri e alcuni LP, che fino al 2012 non verranno mai più ripubblicati: è infatti la Harmonia Mundi (Chant du Monde, distr. Egea) a riunirli oggi per la prima volta nel succitato Dakota Staton. The Complete 1954-1958 con un interessante biografia nel booklet scritto da Alain Tomas. Per quest’ultimo l’unica debolezza del repertorio consiste forse nella scarsa coerenza, visto che si passano disinvoltamente in rassegna quasi tutti i generi vocali americani, forse perché i dirigenti Capitol esitano sulla via da seguire e sul pubblico da conquistare. Ma al di là dell’eclettismo, la cantante domina la situazione lanciandosi pure in qualche scat straordinario (How High The Moon) e dunque con qualche valido singolo quale carta da visita, Dakota lavora regolarmente, nel giro dei club, con il gruppo di Dean Curtis, senza però che le accada granché sul piano artistico.


Ma prospettive assai più ambiziose le si aprono nel momento in cui incontra John Levy, contrabbassista rinomato, già con i più bei nomi jazzistici, da Erroll Garner a Stuff Smith, da Ben Webster ad Art Tatum, prima di abbandonare definitivamente lo strumento per la carriera di manager, con un approccio al contempo onesto, severo, paterno e vigile nei confronti dei propri artisti. La prima salutare iniziativa di Levy verso la Staton sarà quella di orientarla al jazz puro, convincendo il di lei compagno, il citato Cavanaugh, a farla uscire con un valido LP: e infatti con The Late, Late Show (che a distanza di 55 anni molti ancora considerano il migliore) non solo riceve gli elogi unanimi della critica, ma scala anche le Pop Charts del 1957 fino al quarto posto.


La Capitol per lei non lesina sui mezzi: la direzione dell’orchestra, in cui si ascolta il trombettista Jonah Jones in qualche ispirato assolo, è affidata al pianista Hank Jones, mentre Van Alexander fornisce partiture meticolosamente adattate al contesto di una formazione più piccola delle solite big band; ormai ventiseienne Dakota s’impone dunque quale cantante la cui identità vocale è immediatamente riconoscibile e da cui è legittimo attendersi belle cose, in un panorama dominato da colleghe/rivoli che rispondono ai nomi di Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Sarah Vaughan, Carmen McRae, per citare soltanto le “regine’ nere. Da allora in poi la “ragazza’ da Homewood si abitua a non imitare più altre vocalist (come spesso fa ad esempio con Dinah Washingon), optando per la realizzazione di spettacoli dove valorizza in pieno il proprio talento. Levy la sollecita a lavorare con un pianista fisso, che dirige pure l’orchestra e si occupa del repertorio, scegliendo perciò l’esperto Joe Saye, amico del grande pianista cieco George Shearing (inglese, ma in quel periodo stanziale a Hollywood), un altro dei suoi cavalli di razza.


Nel 1958 la Staton intraprende alcune tournée in Europa, Giappone e Australia che sicuramente contribuiscono ad accrescerne la reputazione artistica a livello internazionale. Le speranze in lei riposte quindi si avverano presto: nel 1957 registra In The Night proprio con Shearing, beneficiando del sostegno di partner molto preparati per esternare, in un modo sicuro e consapevole, le molteplici sfaccettature della propria arte vocale. L’anno seguente esce l’album Dinamic! magnificato dagli arrangiamenti di Sid Feller (1916-2006) che è una vecchia volpe del mestiere, che sa valorizzare ogni aspetto del vocalismo jazz; d’altronde è un trombettista completo che, negli anni Quaranta, suona nelle band di Jack Teagarden e di Carmen Cavallaro; reclutato dalla Capitol quale caporchestra e arrangiatore lavora quindi con Dean Martin, Nancy Wilson e Mel Tormé; nel 1955 passa alla ABC-Paramount e produce gli album di Paul Anka, Eydie Gormé e Steve Laurence; il nome di Feller è poi indiscutibilmente associato ai due 33 giri Genious Hits The Road e Modern Sounds In Country And Western di Ray Charles il quale afferma: “Se mi chiamano The Genius [il genio], allora Sid Feller è Albert Einstein”; dunque risulta abilissimo professionista nel confezionare gli arrangiamenti per cantanti; e in tal senso e con gli assolo e i controcanto di Harry Edison e Hank Jones, Dakota può brillare di luce propria.


Con Dinamic! la Staton ottiene il ventiduesimo posto nelle Charts del 1959, acquisendo soprattutto maturità e intelligenza sotto il profilo artistico e, facendo tesoro del successo ottenuto, viene di nuovo invitata dalla Capitol negli studios per un altro album, Crazy He Calls Me stavolta con il supporto congiunto di Sid Feller, Howard Biggs e Nelson Ridlle. Anche la vita personale sta andando bene: sul numero del 19 febbraio 1959 di Jet Magazine viene annunciato il matrimonio tra lei e il trombettista Al Barrymore (1928-1999), già orchestrale di Dizzy Gillespie, convertitosi all’Islam in quegli anni, come molti altri jazzisti, con il nome arabo di Taid Dawud; e in tal senso non ci mette molto a convincere la moglie a raggiungere la Nation Of Islam e chiamarsi Aliyah Rabia. Con il passare del tempo Talid acquista sempre più importanza nel gestire la carriera della donna, sbagliando spesso, con consigli talvolta assurdi, come quando ad esempio le consiglia di non pagare le tasse al governo federale. E per tali incidenti, l’ambiente diventa presto ostile per l’entourage della cantante, la quale litiga con Levy, tra ripercussioni legali (una multa di ben mille dollari di allora) e definitiva rottura con la Capitol dopo l’uscita, nel 1962, di due pur ottimi album Round Midnight e Dakota At Storyville; è una pagina amara nella storia della carriera della Staton che non trova più case discografiche disposte a investire così tanti mezzi nelle sue produzioni musicali.


Nonostante tutto, le peripezie non intaccano il talento di Dakota come si nota dall’eccellente Live And Swinging dal vivo nel 1963 al Festival di Newport per United Artists; per l’occasione George Wein riunisce un’orchestra stellare diretta da Howard McGhee, con Snooky Young, Al Grey, Don Butterfield, Rudy Powell, Billy Root, Billy Mitchell, Gildo Mahones, Clifton Skeeter Best Wendell Marshall, Kali Madi, mentre Melba Liston si incarica di scrivere gli arrangiamenti. Mescolando ballad e blues presi su ogni tempo (lenti, medi, veloci), l’album offre eccellenti prestazioni artistico-musicali. Con la United escono altri due 33 giri – Dakota With Love (1963) e Dakota With Strings (1964) – più che discreti, benché incentrati quasi esclusivamente sul repertorio balladistico, che rischia di essere monotono. C’è poi Dakota 67 inciso durante un viaggio in Inghilterra, dove la coppia si stabilisce per un triennio, seguendo una moda che vede molti artisti statunitensi abitare nella Swingin’ London ormai capitale delle tendenze giovanili mondiali.


Al ritorno negli Stati Uniti, la cantante pubblica I’ve Been There (1970) per la Verve, iniziando così, per la prima metà dei Seventies, ulteriori collaborazioni discografiche soprattutto con LRC e Groove Merchant, entrambe proprietà di Sonny Lester: l’album Madame Foo-Foo (1972) vanta l’accompagnamento dell’hanmmondista John Groove Holmes, I Want A Country Man (1973) è invece con la big band di Manny Albam e My Soul (1974) con il combo del pianista Norman Simmons. Alcuni critici sostengono che in questo periodo si affievolisca il talento della Staton; in effetti non tutto è all’altezza dei dischi Capitol, anche perché i metodi di produzione degli album stanno rapidamente cambiando: Sonny Lester non è né Cavanaugh né Feller; gli accompagnatori praticano un jazz più annacquato rispetto ai professionisti degli studios degli anni Cinquanta e anche il repertorio si concede troppo facilmente al blues tornato di moda presso i giovani hippies. Tuttavia, a un ascolto attento, anche la Dakota anni Settanta resta un’autentica jazz singer in un momento di forte crisi di questa tipologia di canto nero.


Dopo un silenzio discografico che dura circa dodici anni, la Staton firma un contratto con la Muse Joe Fields. E di lì a poco escono Darling Please, Save Your Love For Me (1991), Isn’t This A Lovely Day (1992) e A Pachet Of Love Letters (1999) come HighNote, tutti e tre con il tenorista Houston Person alla guida come produttore e in qualità di principale solista. In questa triade si avvertono gli anni che passano, con un timbro dell’ugola su colori più sobri e meno squillanti: tuttavia sarebbe sbagliato parlare di declino artistico, perché il vocalismo, la performatività e la musica restano qualcosa di autentico e positivamente risolto. A partire dal 2000 però la salute di Dakota è via via minata e le apparizioni in pubblico si fanno sempre più rare: si spegne il 16 aprile 2007 all’Isabella Geriatric Center di New York, all’età di settantasette anni.


Analizzando ora alcune delle molte song contenute nei diciassette album ufficiali The Late, Late Show (1957), In The Night (1957), Dinamic! (1959), Crazy He Calls Me (1959), Round Midnight (1962), Dakota At Storyville (1962), Live And Swinging (1963), Dakota With Love (1963), Dakota With Strings (1964), Dakota 67 (1967), I’ve Been There (1970), Madame Foo-Foo (1972), I Want A Country Man (1973), My Soul (1974), Darling Please, Save Your Love For Me (1991), Isn’t This A Lovely Day (1992) e A Pachet Of Love Letters (1999), anzitutto si scopre che con The Late, Late Show, l’LP di debutto, la Staton realizza una performance culturalmente indiscutibile, pur avvertendosi alcune influenze di Dinah Washington a livello di fraseggio e di intonazione in una Broadway presa su tempi rapidi; o di Ella Fitzgerald in A Foggy Day, dove l’improvvisazione scat non è originalissima. Tuttavia nelle ballate Dakota lascia il segno con una maturità incontestabile: in Summertime o in Trust In Me la linea canora munita d’inflessioni dolici e sinuose si espande in rotondità sia ampie sia ferme che sottolineano una voce dal fascino quasi felino. Il modo di scandire le parole in My Funny Valentine su un tono confidenziale dona ulteriori significati alla pur notevolissima composizione di Richard Rodgers e Lorenz Hart. In ain’t No Use, fa crescere la tensione, senza ostentare virtuosismi, insomma nella maniera più naturale possibile. Per quanto concerne l’interpretazione di Misty, che resta nell’alveo di una musica leggera raffinatissima, permane quell’ambiguità che ne evidenzia lo charme.


Con il 33 giri successivo, In The Night, Dakota si lancia in un’interpretazione di I’m Left With The Blues In My Heart di una grande bellezza emozionale; di proposito all’opposto dello swing veloce giocato su I Heard Music, esplora la linea melodica di The Thrill Is Gone (composizione di Lew Brown e Ray Henderson) con una sensibilità in grado di rivelarne l’intera bellezza. In Confessin’ The Blues la Staton mostra a tutti che il blues è il suo terreno prediletto; non a caso riprenderà questo brano in differenti occasioni durante l’intera carriera.


Nel terzo “padellone’, Dinamic!, si può udire una precisione indiscussa abbinata a una dizione limpida, un fraseggio di una bella souplesse una maniera personalissima di valorizzare la melodia, che permettono a Dakota di scandire le parole di Night Mist e Little Girl sottolineandone i significati reconditi. Calda e brillante in Let Me Off Uptown, la jazz singer utilizza le risorse dei tempi medi per swingare autorevolmente in Say t Isn’t So Joe.


Galvanizzata dalla band, la Staton nel settimo album Live And Swinging si scatena in un numero di scat vertiginoso con I Like The Rhythm In A Riff e regala una versione imperiosa di Drifting Blues, a costituire ulteriori momenti d’orgoglio e di bravura durante il concerto (e poi su disco).


Passando quindi ai quattro dischi degli anni Settanta, la nuova versione di Confessin’ The Blues non ha nulla da invidiare a quella del 1957 in compagnia di George Shearing e l’autorevolezza vocale di cui Dakota fa sfoggio in una Country Man improntata a Big Mayelle lasciano giornalisti e musicologi soddisfatti. Nelle ballate, poi, la Staton esplora l’intera gamma emotiva con una varietà d’approcci e una pratica ormai rodata dello svolgimento drammatico di un intero brano. In Cry Me A River la voce martella gli accenti tragici spingendosi fino all’enfasi; in It’s The Talk Of The Town la vocalist di Homewood grida le pene d’amore con una sensibilità che è raro trovare persino nelle colleghe più blasonate; al contrario i toni si fanno, invece, più confidenziali nella meditativa How Did He Look.


Negli anni Novanta, infine, con gli ultimi tre lavori, usciti direttamante su compact-disc, basta riascoltare l’intensità psicologica distillata in More Than You Know già portato alle stelle nella versione superlativa di Billie Holiday. E tali passaggi emotivi vengono, con Dakota, rinnovati in You’de Better Love Me, Remember, Night Life tre act dal carisma a fior di pelle.


Insomma si potrebbe infine azzardare che Dakota Staton possa annoverarsi tra i protagonisti nella storia della musica afroamericana: benché artista da tempo sottovalutata – assai di più delle coeve Dinah Shore, Big Maybelle, Etta James, Nancy Wilson, Lorez Alexandria, Shirley Horne – risulta, alle luce anche delle ristampe discografiche un’originale vocalist di prima grandezza per feeling, comunicativa, impatto sonoro, finezze stilistiche, in grado di spaziare tra jazz e blues, canzone e r’n’b, sconfinando persino nel rock and roll. Nei brani incisi soprattutto nel decennio 1954-1954è dunque racchiusa la sapienza di una cantante, un’interprete, una performer, in dialettica con l’idea di come il vocalismo black in quegli anni cruciali, grosso modo tra l’era swing e i primi vagiti free, tra il Chicago Blues e il nuovo rock, approdi, nel rispetto della forma-canzone, a traguardi immaginifici in quanto a creatività espressiva: in conclsione Dakota Staton, una jazz singer da riscoprire.