Slideshow. Tiziano Tononi

Foto: Fabio Ciminiera










Slideshow. Tiziano Tononi.


Jazz Convention: Così, a bruciapelo puoi parlarci del tuo nuovo lavoro discografico?


Tiziano Tononi: Ho appena finito di mixare un nuovo capitolo della mia storia con la musica di Don Cherry, si tratta sia di materiale di studio che di registrazioni dal vivo. Dopo 15 anni dalla pubblicazione di “Awake Nu”, il doppio CD che uscì nel ’96 per Splasc(h) e che fu premiato come miglior disco dell’anno, mi è tornata la voglia di proporre alcune tra le cose che considero più determinanti per la mia formazione di musicista e di percussionista – leggi in questo caso batterista -, un repertorio straordinario, assolutamente attuale, permeato di quella leggerezza poetica che solo alcuni grandi interpreti della storia del jazz hanno saputo esprimere. A me la musica di Don Cherry ha insegnato tanto, mi ha invogliato a indagare mondi e culture lontani, mi ha spesso fatto riflettere sulla forza delle idee semplici. Ho scoperto Ed Blackwell, e questo fatto da solo basterebbe a giustificare la grande affezione che ho sempre avuto per l’universo musicale di Don Cherry e di quella ristretta “famiglia” di ex-Ornettiani denominati Old And New Dreams.



JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?


TT: Non so esattamente, certo che l’immagine di quella batteria azzurra nella vetrina della Standa di Corso Buenos Aires è difficile da dimenticare, è stata davvero il primo amore… è partito tutto da lì.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?


TT: Essenzialmente la consapevolezza, arrivata poco alla volta, che nessun’altra musica mi avrebbe dato la stessa libertà espressiva, nemmeno l’emozione fortissima di sentirsi così “avvolti” da quello che ti succede intorno. E suonando la batteria, questa sensazione era, ed è, amplificata dal fatto di essere motore costante della musica e dei suoi sviluppi.



JC: E in particolare un batterista? perchè proprio la batteria?


TT: Non so se abbia scelto io la batteria, o se sia stata lei a scegliere me…da quando ero bambino tutti i ricordi che ho sono filtrati dall’immagine del batterista che si agita dietro al suo armamentario di tamburi e piatti. Nella seconda metà degli anni ’60, quando ho comincia to a strimpellare ritmi su un tamburello con i sonagli, cercando si stare dietro a “Proud Mary” dei Creedence Clearwater Revival, l’immagine iconografica del batterista rock – Keith Moon, Ginger Baker, Mitch Mitchell, Michael Shrieve – era irresistibile, stiamo parlando di un mondo in cui tutto costituiva una scoperta, tutto quello che potevi conoscere in musica e della musica dovevi guadagnartelo, con le unghie e con i denti. L’America e persino l’Inghilterra erano mondi lontani, quasi mitici, ogni tanto riuscivamo ad avere qualche disco d’importazione, che veneravamo totalmente, e che sapevamo a memoria, senza naturalmente riuscire a capirci molto. Tre dischi costituivano il nostro Graal: “Are You Experienced” di Jimi Hendrix, “This Was”, Jethro Tull, e “In The Court Of The Crimson King” dei King Crimson, ce li aveva portati il padre di un nostro amico che suonava sulle navi, rotta Genova-New York. Grazie a lui ho sentito per la prima volta nominare le batterie Gretsch. Beh, devo dire a distanza di tanti anni che la fortuna era, nonostante tutto, dalla nostra parte, no?



JC: Ha ancora un significato oggi la parola jazz?


TT: Sì, penso di sì. Essere un musicista jazz oggi non significa certo per me suonare un particolare stile apparentabile a questa o quella stagione della storia,ormai quasi centenaria, del jazz, rappresenta piuttosto un modo di porsi nei confronti del materiale musicale, consiste nel cercare un modo della produzione del suono con cui “vestire” quello stesso materiale, nella voglia e nella capacità di rischiare ogni volta in nome della scoperta, nel voler continuare ad indagare territori diversi da quelli che ci sono naturalmente affini, per citare Sun Ra… per riuscire a suonare ciò che non sappiamo! Un concetto così alto, così straordinariamente dirompente ancora oggi, e così fuori moda…



JC: Ma cos’è per te il jazz?


TT: Il jazz è l’ebbrezza di sentirsi liberi, di suonare liberamente, free, la più bella parola del mondo, pensa quante persone stupidamente associano alla parola free tutto ciò che di negativo si può pensare in musica! Che idiozia!!! E’ vero che è un equivoco tipicamente italiano, del resto questo non è più da molto tempo un paese nè civile, nè normale, nè tanto meno minimamente acculturato, per cui forse è troppo difficile capire, (ma basterebbe anche meno, solo ricordare…) quanto devastantemente dirompenti siano stati nel corso della storia stili e musicisti oggi considerati pilastri della modernità, all’epoca percepiti addirittura come estranei a ciò che veniva comunemente considerato jazz, Parker su tutti. Mi pare sia Joe Lovano che dice “I don’t play free jazz, I play jazz free!”. Per chi ha orecchie…



JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?


TT: Libertà, uguaglianza sociale, solidarietà, comunità, multiculturalità, condivisione, socialità, calore, ebbrezza, swing (di molti tipi diversi)…



JC: Come pensi che si evolverà il jazz del presente e il jazz del futuro?


TT: Difficile dirlo, a giudicare da tutto quello che è già successo in termini di evoluzione del linguaggio, penso che potrebbe continuare a sorprenderci, certamente me lo auguro.



JC: Tra i molti dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?


TT: Quelli dedicati alla musica di Ornette – Peace Warriors Vol.I e Vol.II – e Strange Mathematics – in trio con Mark Dresser – perchè hanno le copertine fatte dai miei figli, Zeno e Nina, e poi “We Did It, We Did It!” – il triplo su Kirk e su molto altro, anche questo su per premiato e recensito – che costituisce un po’ la summa del mio lavoro dei due decenni ’80 e ’90.



JC: E tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?


TT: L’opera omnia di Varèse (purtroppo un disco solo!), The Times They Are A’Changin’ di Dylan, Axis Bold As Love di Hendrix (il suo disco più sottovalutato, chissà perchè), Where Fortune Smiles di Surman-McLaughlin, Conquistador e Unit Structures di Cecil Taylor, tutto Bartòk e Prokofiev, Neil Young, King Crimson, Bach per liuto e clavicembalo, William Byrd, Bird and Dizzy, Ornette e Don Cherry, Ayler, le sinfonie di Mahler e la Sagra della Primavera, James Taylor e Jackson Browne, FZ, The Fillmore Concert degli Allman Brothers, Miles Davis and the Modern Jazz Giants, Stevie Wonder e Nusrat Fateh Alì Khan, John Mayall, Mississippi John Hurt, Woody Guthrie, Son House, Robert Johnson, i tre King, Aretha, JB, Curtis Mayfield, Gil Scott-Heron, Ravi Shankar con Alla Rahka, potrei non fermarmi mai…



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella batteria (e nella percussione), nella musica, nella cultura, nella vita?


TT: La domanda vale un milione di dollari… senz’altro Andrew Cyrille, che ho avuto la fortuna di conoscere e con cui ho studiato a più partire dal 1978, e Bob Moses, che ho incontrato più tardi e che mi ha aperto gli occhi su questioni determinanti relative al modo di considerare lo strumento, il jazz e l’improvvisazione. In altro ambito il mio amico e maestro David Lee Searcy . per trent’anni primo timpanista del Teatro alla Scala e della Filarmonica – che se n’è andato l’anno scorso e ha lasciato in tutti noi che l’abbiamo conosciuto il senso di una grande mancanza, e grazie al quale ho imparato a pensare ai suoni, a figurarmeli, a descriverli e poi a realizzarli. Ho parlato, viaggiato, mangiato, discusso o registrato con David Searcy, Jonathan Scully, Cyrille, Moses, Paul Motian, Barre Phillips, Pierre Favre, Evan Parker, Maggie Nicols, Dewey Redman, Braxton, Cecil Taylor, Herb Robertsom, Glenn Ferris, William Parker, Omar Clay, Charlie Persip, Freddie Waits, Warren Smith, Roswell Rudd, e da tutti ho imparato qualcosa o molto. Ringrazierò sempre la mia professoressa di seconda liceo, che mi fece scoprire i poeti “maledetti”, e sopratutto Baudelaire. Appartengo ad una generazione cinematograficamente fortunata, ho in mente Ralph Nelson, Sam Peckinpah, Sidney Pollack, John Schlesinger, John Cassavetes, Martin Ritt, Arthur Penn, Coppola, Scorsese, Jerry Scharzberg. E poi Klee, Kandinskji, Malevic, Calder, Mondrian, Picasso, Jackson Pollock, Kenneth Noland, Van Gogh, Cezanne, Degas, Rauschenberg, Moore, Velasquez. Per la batteria vorrei ricordare Roy Haynes, Eric Gravatt, Stu Martin, Alphonse Mouzon, Michael Carvin, Milford Graves, Blackwell e Billy Higgins.



JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?


TT: Ricordo molto precisamente la sera che tornavo a casa a piedi dallo Studio Barigozzi dopo aver finito di registrare il primo disco con Nexus -“Open Mouth Blues”- provavo un senso di totale pace e leggerezza, era un sabato sera di inizio estate del 1983, non c’era in giro quasi nessuno, solo io e la mia felicità…



JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?


TT: In generale quelli con cui c’è una condivisione sia musicale che umana di valori, obiettivi e speranze, credo che il mio percorso di tutti questi anni parli per me.



JC: Cosa stai progettando per l’immediato futuro?


TT: Sto mettendo finalmente mano al progetto Zappa, che sta nella mia testa da almeno dieci anni, con il gruppo Black Hole con Donatiello, Cavallanti, Flammia e Trovesi. Al momento ho scritto una suite di una quarantina di minuti che abbiamo presentato in anteprima al Blue Note lo scorso 6 Maggio, ma sto per rimettermi al lavoro su una seconda parte, per completare il primo capitolo di un lavoro che complessivamente di capitoli ne conterebbe tre (sigh… di questi tempi proporsi di produrre lavori ad ampio raggio è quasi una mission impossible, ma in fondo le sfide mi sono sempre piaciute). Poi ho in mente da un po’ un lavoro dedicato ai Nativi Americani, nel quale vorrei coinvolgere Roscoe Mitchell, oltre ad alcuni dei musicisti con cui collaboro da tempo, Parrini, Bolognesi, Bittolo Bon, Calabrese etc. Sto poi per registrare un lavoro-concept, dedicato a Carmelo Bene, prodotto in Puglia con la collaborazione di Paolo Lepore e della sua orchestra, con Tiziana Ghiglioni, Cavallanti, Parrini e Gigi Lomuto. E’ tempo poi di ritornare in studio con Nexus dopo il disco del 2010 “Nexus Plays Nexus”, l’organico attuale – con Succi, Parrini e Bolognesi, oltre a me e Cavallanti – è uno dei più equilibrati e stimolanti che abbiamo mai assemblato.