Slideshow. Luigi Martinale.

Foto: Marta Picciché










Slideshow. Luigi Martinale.


Jazz Convention: Così, a bruciapelo puoi parlarci del tuo nuovo lavoro discografico?


Luigi Martinale: Il mio nuovo lavoro discografico è Arietis Aetas, sarà un piano solo e verrà pubblicato in Giappone dalla Albòre Jazz, intraprendente etichetta giapponese che già aveva pubblicato Le Sue Ali, un piano trio con Drew Gress al contrabbasso e Paolo Franciscone alla batteria. A settembre è in programma un tour in Giappone per la presentazione di Arietis Aetas. Da tempo volevo concentrarmi sul piano solo, ma molte remore mi fermavano, finché è scattato qualcosa di nuovo, ho trovato alcune soluzioni espressive che mi convincevano ed emozionavano ed ho deciso di andare avanti ed accettare la sfida con me stesso. Ne ho parlato poi con il produttore Satoshi Toyoda, che è rimasto entusiasta dell’idea e mi ha dato un ulteriore stimolo ad andare avanti.



JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?


LM: Ho un ricordo nettissimo: seduto in terra per accedere al mangiadischi, posizionato sul ripiano basso del carrello porta TV, dove ascoltavo i miei 45 giri preferiti: uno di questi era Angelo Negro di Fausto Leali. Avrò avuto 5 o 6 anni.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?


LM: Durante i miei studi classici avvertivo una strana sensazione che ora potrei definire di “soffocamento espressivo”. Quando a 14 anni ho scoperto il jazz ho avvertito qualcosa di potente, di misterioso, che andava a toccare contemporaneamente la parte razionale e la parte istintiva. Da lì il percorso è stato lungo, una scoperta faticosa, molto personale, nessuno intorno a me praticava il jazz, solo qualche amico più grande possedeva dischi di jazz. A 21 anni ho incontrato Riccardo Zegna che insegnava alla Scuola Civica di Torino, l’ho sentito suonare Airegin, su un pianoforte verticale mezzo scassato, ma la scintilla che mi è arrivata è stata decisiva: mi sono detto: “ecco, voglio suonare quella musica lì!”. Ho finito i miei studi classici e mi sono immerso nello studio del jazz.



JC: Ha ancora un significato oggi la parola jazz?


LM: Penso di sì, nonostante le infinite declinazioni linguistiche e stilistiche e le appropriazioni indebite.



JC: Ma cos’è per te il jazz?


LM: Innanzitutto una tradizione irrinunciabile, su cui si possono innestare personali idee espressive.



JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?


LM: Una musica che richiede preparazione, dedizione, passione ma che ti dà la possibilità di essere creativo e ti spinge in avanti. Una musica che unisce intelletto, cuore e “pancia”, intesa come fisicità.



JC: Come pensi che si evolverà il jazz del presente e il jazz del futuro?


LM: Questa è una risposta impossibile: dipende dalle personalità che via via emergeranno, anche se il mercato, in via di drastico restringimento, non aiuta di certo la diffusione e lo sviluppo di questa musica.



JC: Tra i dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?


LM: Tutti i dischi nascono da precise situazioni di ricerca espressiva, di incontro tra musicisti: ogni disco rappresenta un momento di vita e un momento musicale della propria vita. Difficile quindi stabilire quello cui si è più affezionati. Posso citarne qualcuno: il mio primo Cd da leader, Eyes And Stripes (DDQ, ora CAM), in quartetto con Fabrizio Bosso, Alessandro Minetto e Nicola Muresu; un lavoro con mie composizioni che mi ha dato lo stimolo a proseguire nella scrittura di composizioni originali, aspetto che mi interessa quanto l’essere pianista. Poi potrei citare Dipinto di Blu (Splasc(H) Records), un grande progetto che ha chiuso la trilogia del gruppo Jazzinaria, dedicato alla rielaborazione non nostalgica delle canzoni italiane degli anni ’30, ’40, 50. Questo disco ha rappresentato un accurato lavoro di arrangiamento, in cui mi ero buttato con grande entusiasmo: la registrazione vede, oltre alla formazione con Laura Cavallero alla voce, Stefano Risso al contrabbasso e Paolo Franciscone alla batteria, anche il gruppo di archi Architorti, Fabrizio Bosso ed Emanuele Cisi. E poi aggiungerei Sweet Marta (DDQ, ora CAM), in trio, sempre con Grew Gress e Paolo Franciscone: è il disco che mi ha fatto conoscere in Giappone e mi ha consentito successivamente di proseguire con diverse produzioni per il paese del Sol Levante.



JC: E tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?


LM: Direi quattro dischi: Innanzitutto Anniversay di Stan Getz, con Kenny Barron al piano: adoro Getz in questo ultimo periodo della sua vita, intenso, lirico, emozionante e accompagnato da una ritmica da sogno con Barron in stato di grazia. Poi Music For Large and Small Ensembles di Kenny Wheeler: la scrittura del trombettista e compositore inglese rappresenta per me la quintessenza della scrittura jazzistica: le melodie che scrive sono pietre miliari. L’orchestra poi è da sogno! Quindi Weaver of Dreams di Don Grolnick: un altro compositore poco considerato, forse snobbato per aver frequentato ambienti collaterali al jazz. La sua profondità, la sua arguzia compositiva, le soluzioni di arrangiamento sempre fresche e mai scontate costituiscono per me un insegnamento irrinunciabile: il suo brano Taglioni è qualcosa di assolutamente fantastico, proviene da una mente aperta, colta e viscerale allo stesso tempo. Infine Standards Live di Keith Jarrett: appena uscito ascoltavo questo disco in continuazione, in modo ossessivo, come in trance, emozionandomi ogni volta come se fosse la prima.



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nel pianoforte, nella musica, nella cultura, nella vita?


LM: Per quanto riguarda il pianoforte ho un grosso debito con Mario Rusca, musicista e insegnante splendido con cui ho capito cosa studiare e come. E poi Enrico Pieranunzi, che ho incontrato poche volte ma che mi ha dato stimoli notevoli. Per quanto riguarda maestri di musica in generale potrei riportare le parole di Petrucciani che sosteneva che i musicisti sono ladri, si appropriano delle idee degli altri e le sviluppano, se hanno personalità, in qualcosa di diverso. Condivido questa affermazione e penso sia il motivo per cui il jazz non finirà mai: ci saranno sempre idee da rubare e da sviluppare. Maestri di vita e cultura? Penso non ci siano nomi precisi bensì incontri, suggestioni e stimoli che a volte non si palesano nell’immediato ma vengono fuori con tempo.



JC: Qual è stato per te il momento più bello della tua carriera di musicista?


LM: Un concerto fantastico nell’ambito della Rassegna Jazz Visions con Fabrizio Bosso, Reuben Rogers e Paolo Franciscone: l’adrenalina di quella sera è rimasta in circolo per due giorni! Un’altra grande esperienza è stata la partecipazione nel 2006 al Tel Aviv Internationale Jazz Festival dove ero stato invitato, con il mio trio, per un omaggio a Bill Evans: impegno da far tremare i polsi ma che mi ha dato la possibilità di misurarmi concretamente con la musica di uno dei miei miti assoluti.



JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?


LM: Con tutti coloro che portano la loro personalità ma che riescono ad entrare nelle pieghe del mio mondo espressivo.



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


LM: Il prossimo obiettivo è la registrazione di un lavoro che mi ha impegnato molto: il mio Sextet, con Tino Tracanna ai sax, Alberto Mandarini alla tromba, Giancarlo Maurino al flauto e sax alto, Mauro Battisti al contrabbasso e Paolo Franciscone alla batteria. Ho scritto e arrangiato tutti brani originali, abbiamo avuto l’opportunità di suonare per alcuni concerti e ora non resterebbe che fermare il tutto in un CD!