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Slideshow. Giuseppe Aliprandi
Jazz Convention: Giuseppe iniziamo anzitutto a parlare di Natura morta con flauto.
Giuseppe Aliprandi: È il mio ultimo lavoro, uscito per la Ultrasound ed è registrato con il mio Jazz Academy New Quartet. Mi fanno compagnia, anzi mi sostengono egregiamente, Francesco Pinetti al vibrafono, Yuri Goloubev al contrabbasso e Marco Zanoli alla batteria.
JC: Il titolo sembra richiamare quello di un quadro, un dipinto.
GA: In realtà è una specie di lavoro riassuntivo in quanto, se in alcuni brani è meno “avantgarde” di altri miei album recenti, alcuni pezzi sono decisamente di ambito free. E con questo resto coerente con la mia poetica che vede i piedi ben piantati nella tradizione e la testa protesa sempre verso il futuro. Nello stesso tempo il disco si richiama, sia nello spirito che nell’organico, a un precedente lavoro del 1995, Blue Flowers, che avevo fatto con Karl Berger, Piero Leveratto e Aldo Romano.
JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?
GA: Risale a quando avevo circa otto anni e mia madre, diplomata in pianoforte, mi portò a un concerto di Alfred Cortot. Da quel momento impazzii per Chopin!
JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?
GA: Il “Jazz” semplicemente perché, dopo aver sentito quasi contemporaneamente un Tiger Rag di Louis Armstrong e un 45 giri di Charlie Parker, avevo circa quindici anni, decisi che quella sarebbe stata la mia musica.
JC: Ha ancora un significato oggi la parola jazz?
GA: La parola “Jazz” avrà sempre significato nella misura in cui i musicisti ci si impegneranno e i Promoter e i Giornalisti non spacceranno di tutto sotto il nome Jazz. Chissà perché questa musica non piace ai più, è una musica strettamente di nicchia, però la parola Jazz ha un fascino particolare e quindi viene usata a sproposito per contrabbandare, anche nei festival specializzati, musica pop, world music, La Monferrina, del banale rock o improvvisazione radicale.
JC: Ma cos’è per te il jazz?
GA: È una musica che possiede swing e blue notes. Poi può essere tradizionale o di avanguardia, ma se mancano questi due ingredienti non è Jazz. Questo non è un giudizio di merito, per carità. Ci possono essere delle produzioni di tutto rispetto, ma a volte non hanno niente a che vedere con il Jazz, mancando loro quel filo conduttore che le lega sotto sotto a Buddy Bolden e a King Oliver.
JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?
GA: La domanda non è facile ma provo lo stesso a risponderti. Le parole, e quindi le idee che mi vengono in mente pensando al Jazz sono poesia, coralità, comunicazione, energia, libertà coniugata a disciplina.
JC: Come pensi che si evolverà il jazz del presente e il jazz del futuro?
GA: Impossibile dirlo. Il Jazz è stato dato per morto infinite volte e infinite volte è rinato più forte e più vitale. Tutto dipenderà da un lato dai musicisti che dovranno imparare a non confidare soltanto nella perizia tecnica, come sembra stiano facendo oggi; e, dall’altro lato, dalla comparsa di un genio (o di una generazione di geni, come avvenne col bebop). Non la vedo troppo bene…
JC: Tra i molti dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?
GA: È Duke, I Love You Madly un lavoro accolto in modo particolarmente buono dalla critica, in Italia ma soprattutto in Inghilterra, dove è stato anche considerato uno dei dieci migliori dischi di quell’anno (il 1998, ma uscito mi pare nel 1999). Naturalmente la sua ottima riuscita non è servita a farmi fare un concerto in più!
JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?
GA: Nella musica, oltre a mia madre, Karl Berger con il quale ho parlato pochissimo ma che ho ascoltato molto, soprattutto dal vivo negli anni Sessanta. Nella cultura, e quindi nella vita, mia moglie, Lao Tse, il Siddharta di Hermann Hesse e Paul Klee.
JC: Qual è stato per te il momento più bello della tua carriera di musicista?
GA: Il momento di più grande soddisfazione è stato quando, dopo aver partecipato a innumerevoli Jam-sessions alla Cave 54 di Heidelberg, che nei primi anni ’60 era una specie di Mecca del Jazz in Europa, sono stato avvicinato da uno degli studenti che la gestivano, che mi disse:”Tu hai suonato molto e non hai mai chiesto niente. Noi non possiamo darti gran ché per ringraziarti, solo 10 marchi a sera ma se ti va, metti insieme un gruppo e per un mese il palco è tuo, tutte le sere”. E così il mio trio, con Roberto Petrin alla batteria, emigrato dall’Italia e già batterista fisso del locale e un ottimo bassista americano che si chiamava Ken, suonò tutte le sere per un mese. Fu una cosa grande, ma più di tutto valsero le parole di quel ragazzo.
JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?
GA: I musicisti sono volubili e credo che per ciascuno di noi i migliori siano quelli con i quali si sta collaborando in questo momento. Quindi, per me, quelli dei miei attuali progetti. In più ho qualche rimpianto: mi sarebbe piaciuto fare qualcosa con Paolo Alderighi, ma è troppo impegnato, soprattutto all’estero ed io non posso offrirgli più di un paio di concerti all’anno, perché questa purtroppo è la realtà.
JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?
GA: Oltre cercare di mantenere in vita il quartetto con il quale ho realizzato questo disco (anche qui un concerto all’anno), sto collaborando al 3×4+1, un quintetto con Luca Segala, Danilo Moccia, Tito Mangialajo e Massimo Pintori. Con loro ho appena registrato il terzo CD che dovrebbe uscire a breve. Poi è a buon punto un progetto sul Jazz tradizionale e i suoi rapporti con l’attualità, insieme a Paolo Botti, Michele Franzini e Mangialajo. Presto saremo pronti per registrare. Sto anche lavorando a un secondo capitolo della mia storia di devozione a Duke Ellington e spero che anche questo abbia la riuscita del primo. Infine è sempre vivo il progetto che forse mi ha dato maggiori occasioni di suonare in pubblico: quello che, con i dischi Maya’s Dream prima e Blue Totem poi mi ha permesso di indagare i rapporti tra Jazz e musiche popolari di mezzo mondo.