Slideshow. Luciano Troja

Foto: Francesco Mento










Slideshow. Luciano Troja.


Jazz Convention: Luciano, così, a bruciapelo puoi parlarci del tuo nuovo lavoro discografico D’istante 3?


Luciano Troja: D’istante 3 è un progetto che nasce a New York, dall’incontro mio e del chitarrista Giancarlo Mazzù – con cui collaboro da circa dieci anni- con il sassofonista /clarinettista americano Blaise Siwula. Abbiamo conosciuto Blaise a NY nel 2006 durante una serie di concerti con la formazione Mahanada, quartetto di musica creativa che comprende anche Carmelo Coglitore e Carlo Nicita. Siamo stati invitati a suonare all’Abc No-Rio, dove da circa quindici anni Blaise tiene una rassegna di musica improvvisata (COMA Improvised Music Series). In coda al concerto si aggregò anche lui e venne fuori un bellissimo incontro musicale. Negli anni successivi io e Giancarlo siamo tornati più volte a New York, e ci siamo esibiti con Blaise in vari club e centri culturali, cercando di elaborare un “nostro” linguaggio, che nell’aprile del 2011 è confluito nella registrazione del cd D’istante3, registrato al Wombat Studio di Brooklyn, e pubblicato per la etichetta inglese SLAM di George Haslam.



JC: Facendo un balzo all’indietro, ci racconti ora il primo ricordo che hai della musica?


LT: Istintivamente il mio primo ricordo musicale è legato all’immagine dei meravigliosi dischi dei miei genitori: musica leggera per orchestra, Nat King Cole con gli archi, il leggendario LP Louis Armstrong & Duke Ellington per la Roulette, un disco rotto di Billie Holiday. Ma, soprattutto, è stato il giradischi il mio primo vero strumento di musica, che manovravo tutto il giorno, talvolta anche di nascosto. Al contempo accompagnavo i dischi percuotendo qualcosa che potesse simulare la batteria.



JC: E il tuo primo contatto con uno strumento a tastiera?


LT: Quello, invece, avvenne a seguito del fatto che, a otto anni circa, scrissi un racconto dal titolo “L’Automobile Formidabile” che a mio padre, appassionato di letteratura, ma anche di automobili, piacque tanto. Così, per premiarmi, mi regalò una tastiera giocattolo, che da quel giorno suonai sempre, ogni giorno.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista?


LT: Collegandomi alla domanda precedente in realtà non mi sono mai chiesto se volevo diventare o meno un musicista, in pratica ho sempre messo mani sullo strumento. Ho cercato di mantenere il più possibile viva, pur studiando e perfezionandomi in Italia e all’estero, quella sorpresa nell’esplorare i suoni che avevo sin da bambino.



JC: Ti piace la definizione di musicista free o gradisci altro?


LT: Se per free intendiamo il movimento che si forma in America negli anni Sessanta avente una connotazione soprattutto politica di opposizione, direi di non sentirmi certamente un musicista free. Ma se l’essere free è legato alla libertà, non fine a se stessa, ma quale conquista ed esigenza naturale dell’individuo di autodeterminare la propria poetica, allora sì. La libertà l’ho sempre associata alla musica. Anzi, esprimere la propria poetica, libera da condizionamenti, per me, è l’elemento essenziale di qualunque forma d’arte.



JC: Fare avanguardia è di ostacolo nell’ambito jazz?


LT: L’avanguardia è il jazz. Se ai loro tempi non fossero stati all’avanguardia Louis Armstrong, Jelly Roll Morton, Duke Ellington, Monk, Parker, Davis, Bill Evans, Coltrane o Coleman, e non so quanti altri, oggi forse non staremmo qui a parlare ancora di jazz.



JC: Ha ancora un significato oggi la parola jazz?


LT: Da piccolo mi attraeva questa parola ancora prima di sapere a quale musica esattamente si riferisse. Sentivo che riguardava qualcosa di profondamente statunitense. Col tempo, capii che anche la componente africana era determinante, e, approfondendo ancora, compresi anche che la matrice europea era una componente inscindibile, e poi anche quella latino-hispanica. Insomma, per me la parola jazz serve a descrivere un mondo musicale, vero o immaginario, in moto continuo che parte dall’America del Nord, gira il mondo e ritorna lì da dove era partito: tutto nella mia mente. Come mi è capitato altre volte di dire, il jazz è soggettivo, ognuno di noi ne ha/dà una propria personale visione. In tempo reale.



JC: Esiste ancora qualcosa di specifico nel jazz?


LT: Mi rendo conto che oggi, date le molteplici, radicate influenze, in effetti basterebbe parlare esclusivamente di “musica improvvisata”, ma nel mio immaginario mi piace chiamarlo ancora jazz, forse più per un fatto affettivo, e, forse, anche perché amo profondamente l’American Songbook. Che venga chiamato jazz o meno, comunque, l’improvvisazione – mai prestabilita- deve costituirne l’elemento fondamentale. La pronuncia, la ricerca della melodia, generatrice dell’imperfezione e dell’esitazione controllata, nonché la ricerca timbrica, se tutti in tempo reale, sono la sua linfa vitale. Se così fosse – come è – non finirà mai di esistere, perché è connaturata con l’essere “umani”.



JC: Ma cos’è per te il jazz?


LT: Il jazz è una meravigliosa illusione, un mondo di fantasia. Sta tutto nell’approccio. È un mezzo magico per raccontare le proprie storie con le proprie risorse, anche tecnicamente non perfette, a patto però che le storie e le risorse siano autentiche. Allora si potranno comunicare emozioni e, possibilmente, bellezza, attraverso la propria poetica. Quindi, per quanto mi riguarda, il jazz deve emozionarmi e, spero, emozionare. Qualcosa di non esclusivamente musicale, e della cui bellezza non bisognerebbe mai dimenticarsene, soprattutto quando lo si insegna. Ammesso che sia possibile farlo…



JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?


LT: L’idea del sorriso e il sentimento della malinconia. Io spero sempre che la mia musica sorrida a chi la sta ascoltando. La malinconia credo che sia connaturata al jazz, ma è consolatoria. Il concetto che ho sempre in mente quando suono è che il jazz pur essendo una forma d’arte che ha radici popolari ma non è di massa, e neanche di nicchia, si rivolge a un unico ascoltatore. Insomma, l’intimo desiderio di chi fruisce il jazz che ama, è quello di esserne l’unico esclusivo destinatario. Esattamente come la poesia, certo cinema e tutte le cose che pensiamo/sentiamo siano state realizzate per ciascuno di noi, in via esclusiva. Nell’improvvisazione totale in particolare, secondo me, è meglio condividere con gli altri musicisti più la propria condizione umana che la musica. A mio parere il jazz è musica soggettiva, e riesce meglio se ciascuno racconta se stesso, senza filtri.



JC: Tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?


LT: Direi New Conversations di Bill Evans. Per me si tratta del primo disco che ho acquistato di Bill Evans, il giorno dopo averlo visto dal vivo. Il suono, e la cascata di note, assolutamente inusuale dei tre pianoforti (uno è un piano Rhodes) sovraincisi da Evans, e la bellezza di quei brani, mi accompagnano da sempre.



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nel pianoforte e nella musica?


LT: Bill Evans, innanzitutto: ovviamente un maestro immaginato, che mi ha seguito quotidianamente sin dal giorno in cui lo vidi per la prima volta dal vivo al Ronniès Scott di Londra, nel 1980, appena un mese prima della sua scomparsa. Nel tempo ho cercato di coglierne l’essenza, tentando di lasciarmi attraversare dal suo approccio, studiando la sua musica, e anche avvicinandomi il più possibile a tutto quello che esisteva su di lui e sul suo mondo. Un esempio su tutti il mio album At Home With Zindars del 2010, incentrato sulla musica e l’amicizia fra Evans e il compositore Earl Zindars (1927-2005), che ho realizzato con l’affettuosa collaborazione della famiglia Zindars.



JC: E oltre Bill Evans?


LT: Salvatore Bonafede, figura per me esemplare di maestro, musicista e compositore che mi ha seguito per tanti anni. Dalla sua esperienza e conoscenza, ma soprattutto dalla sua intelligenza e dal suo grande gusto, ho cercato di imparare il più possibile. Gran parte di quello che so deriva dalle sue parole, dalle sue partiture, e dal vederlo suonare.



JC: Maestri nella vita?


LT: Mio padre, esempio assoluto, di dedizione al lavoro e alla famiglia. Un uomo che ha costruito da solo la sua carriera, e che amava la sua professione come nessun altro. Era un avvocato, un uomo di grande grinta, generoso e molto concreto. All’inizio non condivise particolarmente la mia passione per la musica, ma poi, da uomo di grande vedute qual’era, quando si accorse che stavo costruendo con grande dedizione questo mio desiderio, mi appoggiò fino all’ultimo.



JC: Nella cultura?


LT: Sono un grande amante di cinema, almeno quanto di musica, e amo in particolare i film a basso costo, con idee originali e fuori dagli schemi, soprattutto i b-movies, che si basano soprattutto sulle idee, l’ironia, e l’indipendenza. Sì, il cinema mi ispira tanto e mi piace pensare alla musica anche in termini cinematografici.



JC: I solisti di free jazz che ami di più?


LT: Se per free intendiamo tutta la musica creativa improvvisata: Paul Bley sopra tutti, e Ornette Coleman, Cecil Taylor, i compianti Eric Dolphy, Don Cherry e Jimmy Giuffre. In Europa in particolare Evan Parker e Kenny Wheeler. Fra le nuove leve sono rimasto molto impressionato dal banjoista elettrico Brandon Seabrook, e mi piace molto il sassofonista Darius Jones. Ma sono migliaia i musicisti meravigliosi che credono nella creatività innanzitutto, e nel reinventarsi continuamente con grande umiltà.



JC: Qual è stato per te il momento più bello della tua carriera di musicista?


LT: Sono stati tanti, ma quello più gioioso e costruttivo è stato forse il giorno in cui abbiamo costituito il Mahanada Quartet. Ci conoscevamo appena, e un giorno di dicembre del 2002 ci siamo incontrati a Messina per il nostro primo concerto con il sassofonista Carmelo Coglitore, il flautista Carlo Nicita e il chitarrista Giancarlo Mazzù. Mi sembrava miracoloso trovare persone con cui poter condividere un approccio musicale così simile al mio. Legato si alla forma, ma soprattutto alla composizione spontanea. Abbiamo registrato insieme tre dischi e abbiamo tenuto concerti in Europa e Stati Uniti. Spero che potremo fare ancora fare tante cose insieme.



JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?


LT: Sono tanti e sarebbe ingiusto citarne alcuni invece di altri.



JC: Almeno i più importanti?


LT: Come dicevo il Mahanada Quartet, composto oltre che da Mazzù, anche dai già citati Carmelo Coglitore e Carlo Nicita. Ma non potrei trascurare la ultra ventennale collaborazione con la vocalist Rosalba Lazzarotto. Inoltre, per me è estremamente importante la collaborazione con Giancarlo Mazzù con cui condivido in pieno l’approccio musicale estremamente sereno. Insieme abbiamo pubblicato ben sei album, abbiamo scritto le musiche di scena per almeno una decina di opere teatrali, e abbiamo suonato in Europa e USA. Aggiungo, infine, il batterista Filippo Bonaccorso insieme al quale coordiniamo a Messina da diversi anni Pannonica, una associazione spontanea di musicisti siciliani.



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


LT: Ovviamente mi dedicherò alla promozione del nuovo disco D’Istante3 con Giancarlo e Blaise. Tengo tanto a questo disco, per la sua gestazione, per i grandi musicisti con cui ho avuto l’onore di collaborare e per la musica che contiene. Il disco esce in Italia il 14 settembre 2012, e in ottobre nel resto del mondo. Ma dal prossimo anno vorrei anche dedicarmi alla esecuzione dal vivo della musica tratta dal mio disco per piano solo At Home With Zindars, dedicato alla musica e al “mondo” di Earl Zindars, che ha ricevuto importanti riconoscimenti negli USA. Al momento sto valutando anche una proposta per una eventuale drammatizzazione del soggetto tratto dall’album.