Foto: La copertina del libro
Gianfranco Nissola. Il Principe delle Tenebre e altre storie.
JC: Anzitutto puoi parlarci in breve del tuo libro, il tuo primo libro alla giovane età di 75 anni?
Gianfranco Nissola: Quando nell’agosto del 2009 ho deciso di scrivere Miles Davis il principe delle tenebre per le Edizioni Scientifiche di Pisa mi sono subito reso conto dell’enorme difficoltà di staccarmi, per quanto possibile, da tutto quanto era già stato scritto su Miles Davis. Se però volevo ricordarlo degnamente per l’ imminente ricorrenza dei vent’anni dalla sua morte dovevo fare presto, molto presto. Ho radunato vicino al PC libri, filmati ed alcune sue registrazioni fondamentali, naturalmente in mio possesso, ed ho messo mano alla struttura del libro. Ne dovevo trarre un qualche cosa che lo riguardasse a tutto tondo, quindi doveva essere più che una biografia e, a un tempo, non doveva essere un romanzo, un saggio o solo una storia, nemmeno un’analisi musicale delle sue opere. Questa era l’idea di partenza; e la prima pagina che ho scritto è stato l’indice. Prologo, epilogo e, fra i due estremi, 20 capitoli da intitolare e dedicare a momenti significativi della vita e della storia di Miles. Limite: non superare le 250 pagine.
JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a scegliere proprio Miles Davis?
GN: Sotto il profilo strettamente musicale Miles è la passione inestinguibile di tutta la vita. Ascoltandolo ho però sempre sentito il desiderio di conoscerlo più a fondo, per quanto possibile, come uomo: come essere umano. Perchè, per me, un musicista esprime, attraverso il linguaggio che gli è proprio, quello che vive. La sua musica è l’espressione della sua vita. E Miles, con quel suo fervore a cambiare la musica, perché la sua vita cambiava continuamente, mi intrigava assai. Forse, oltre la musica che ha composto e suonato, mi interessava moltissimo quella sua spinta incessante alla ricerca, come espressione, del suono che aveva in testa, quel suono che derivava direttamente dalla sua sensibilità artistica da condividere, sul piano umano, con i musicisti che via via voleva accanto a sé. Per questo ho scelto di scrivere proprio di Miles.
JC: E quali sono i motivi che ti hanno spinto ad abbracciare il jazz?
GN: Non sono un musicista e non ho una formazione musicale in senso scolastico; fin dalla più giovane età ho sempre ascoltato molto la musica, tutto il possibile e quotidianamente. Ed ho letto molto, anche di musica e di musicisti. Non sono io che ho abbracciato il jazz ma, attraverso i suoi suoni, le sue forme, i suoi ritmi, il mio desiderio di conoscere e comprendere chi lo suonava e perché, è stato il jazz che ha conquistato me e mi ha spinto a ricercarne le basi, le motivazioni, l’estetica espressiva, i caratteri.
JC: Ci racconti ora il primo ricordo che hai della musica?
GN: Se lo intendi come consapevolezza dell’interesse che la musica rappresentava per me, i momenti sono ben chiari e pressoché contemporanei. Risalgono all’inizio del 1946: avevo quasi 10 anni. Ascoltavo dal vivo, e molto volentieri, la banda del posto dove sono nato, le marce, qualche aria un poco più colta. A febbraio mio padre, reduce da Algeri dopo un lungo periodo di prigionia in campo di concentramento sotto gli inglesi, si era felicemente ricongiunto alla famiglia, fortunatamente integra. Pur con sacrificio, il primo importante acquisto famigliare per essere a contatto con il mondo che risorgeva dalla tragedia del conflitto mondiale, fu un apparecchio radio.
JC: E cosa sentivate allora alla radio?
GN: A sera, accanto a mio padre, ascoltavo la musica araba, le nenie che provenivano dalle stazioni radiofoniche nordafricane. Per lui era un ritorno al recente passato fuori dalla famiglia, per me era la scoperta che il mondo non finiva ai confini del paesello e che, attraverso la musica si poteva scoprire la gente, la vita. Fino a quel momento, beata ignoranza, non ero a conoscenza dello sterminato firmamento della musica. Oltre a sentire suonare la banda avevo ascoltato, rapito, qualche brano di canzonetta cantata da qualche giovane, felice dello scampato pericolo bellico, oppure, contrito, qualche messa funebre, cantata dalle orfanelle. Mi rammento l’impressione all’ascolto del Te Deum, che venne cantato dal parroco in una messa di ringraziamento. Comunque sono bei ricordi.
JC: Ha ancora un significato oggi la parola jazz?
GN: Come termine letterale identificativo il suo significato non va molto più in là di quanto ne avesse un centinaio di anni fa, alle origini. Se invece con la parola jazz desideriamo connotare la storia, l’evoluzione, l’importanza , la forza innovativa della nostra musica ritengo che il termine mantenga intatto il significato, anzi lo dobbiamo rafforzare, come un brand che, nell’immagine sonora, via via cambia per mezzo del continuo rinnovarsi della sua espressività. E non dobbiamo aver timore delle sue contaminazioni: il jazz lo valuti e lo rivaluti solamente conoscendolo.
JC: E che cos’è per te il jazz?
GN: In un immaginario quadro della nostra vita, della parte spirituale di essa intendo, per me è il punto focale centrale che attira e da cui si dipartono le aspirazioni estetiche più sublimi. Tutta la musica se ben suonata è bella: e l’affermazione non è di certo mia, ma di uno dei padri di cui non occorre fare il nome. Ci sono e ci sono stati musicisti di immensa statura, di certo non necessita un elenco, ma il musicista che suona la nostra musica artisticamente ed umanamente si distacca, si eleva su tutti. La comunicativa e l’entusiasmo, l’ironia, il calore che questa musica sa generare tocca le corde più profonde della sensibilità individuale, sia per chi suona che per chi ascolta.
JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?
GN: All’apparenza complessa la domanda si può considerare, per me, in fondo abbastanza semplice. Tutto inizia da una profonda conoscenza di sé, dalla consapevolezza di volersi confrontare con dignità con gli altri. Per ponderare poi che è necessario essere intimamente e profondamente onesti per poter far sì che il concetto della condivisione delle idee si possa sviluppare proficuamente ed in modo estremamente ampio su tutta la scala dei valori individuali. E di certo concetti quali la libertà, il rispetto dei diritti individuali, l’arricchimento culturale, l’apprezzamento estetico, ma anche la tolleranza, la solidarietà, l’altruismo devono rientrare nella suddetta scala. Sul piano dei sentimenti associo volentieri la nostra musica alla fratellanza, all’amicizia, alla simpatia. Miles è arrivato ad amare la sua musica, la gente che l’ascoltava, fino ad averne un profondo rispetto, celato a volte dietro una palpabile timidezza.
JC: Come pensi che si evolverà il jazz del presente e il jazz del futuro?
GN: Che evoluzione ci sarà è indubbio: c’è sempre stata, è insita nella nostra musica. Ma il come di questa evoluzione è in stretta correlazione con la personalità dei musicisti, con la loro umiltà. Ma, intendiamoci, per me umiltà non significa modestia o semplicità, quanto piuttosto rispetto per quanto già fatto da altri, studio, assimilazione e poi cercare nuove vie con curiosità, con coraggio. Era questa la strada che Miles ha sempre indicato. Ricorderai le sue New Directions in Music; purtroppo è mancato nel momento in cui lui, sempre così avanti, anticipatore, stava per svelarci nuove strade da percorrere…
JC: Chissà, forse per questo oggi il jazz fatica a ritrovarsi…
GN: Pensa che nel luglio 1956 Duke Ellington, al Festival di Newport, aprì l’esibizione della sua orchestra – era quasi mezzanotte – con la frase: We have to tell new things… Ed è la frase che vorrei sempre sentire da un musicista jazz quando presenta un suo nuovo progetto, quando con chi condivide la sua strada sta per iniziare a suonare. E non per frenesia di successo, men che meno per superbia, quanto piuttosto per consapevolezza di voler manifestare il coraggio del desiderio, di osare. Da tempo ormai non emerge qualcuno che ci faccia provare i brividi; il livello di preparazione è molto alto ma questo non vuol dire che sorgerà presto un nuovo astro. Ma non dispero. Anche se di anni ne ho tanti penso che arriverò in tempo ad ascoltarlo.
JC: Tra i moltissimi dischi che hai sentito di Miles Davis ce n’è uno a cui sei particolarmente affezionato?
GN: Certamente, ma non te lo dico. Ne ho superato, come ascolto, quota 2500. Comprenderai però qual è perché è compreso fra i tre che indico nella risposta seguente.
JC: I tre dischi che porteresti sull’isola deserta?
GN: Risposta lampo: Milestones, Kind Of Blue, Tutu. Senza alcun dubbio. Però meglio non finire sull’isola deserta perché mi mancherebbero tanto tutti gli altri.
JC: Quali sono i tuoi jazzmen preferiti, oltre Miles?
GN: Duke Ellington e tutti i suoi big. E poi John Coltrane e Lee Konitz, Bill Evans e Michel Petrucciani, i tre fratelli Jones, Hank, Thad e Elvin; mi fermo perché ce ne sono almeno due o tre per ogni strumento.
JC: Qual è per te il concerto più bello che hai ascoltato? E perché?
GN: Il primo concerto milanese del Modern Jazz Quartet, al Teatro Manzoni a metà degli anni Cinquanta. Ero molto giovane ma compresi che il jazz non era quella “orripilante musica di strada” che da noi certi benpensanti etichettavano come qualcosa di volgare. Era un concerto pomeridiano, ma i quattro del MJQ – John Lewis, Milton Jackson, Percy Heath e Connie Kay – si presentarono sul palco, elegantissimi, in abito da sera.
JC: Quali sono in breve i jazzisti italiani che ami ascoltare?
GN: Ne ascolto molti, giovani e meno giovani; tantissimi sono bravi e preferisco non fare nomi. Se mi è possibile vado ad ascoltarli dal vivo quando fanno concerti a distanze abbordabili.
JC: Cosa stai progettando per l’immediato futuro?
GN: Oltre a dedicarmi al sito Web dell’Associazione Amici del jazz di Valenza, di cui sono consigliere, sto raccogliendo materiale per scrivere un nuovo libro, sempre naturalmente su musicisti jazz. Ma non dico nulla di più.
JC: Quale aneddoto – legato al jazz – vuoi infine svelarci?
GN: Un fatto curioso durante un concerto del trio di Bill Evans, con Marc Johnson e Joe La Barbera, al Cinema Teatro Politeama di Casale Monferrato il 30 Novembre 1979. Alcuni amici ed io buttammo letteralmente fuori dal teatro un gruppo di disturbatori. Venivano da fuori provincia e chiedevano, neanche tanto timidamente, di poter ascoltare arie di operetta. Era la musica che loro amavano. Bill Evans si fermò, si alzò dallo sgabello e minacciò di sospendere il concerto. Perciò intervenimmo e cacciammo via quegli “appassionati”. Magari non siamo stati tolleranti, forse poco rispettosi della libertà altrui. Però, quando ci vuole, ci vuole!!!