L’unico seguace di Roland Kirk. Breve fenomenologia di Ian Anderson dei Jethro Tull.

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L’unico seguace di Roland Kirk. Breve fenomenologia di Ian Anderson dei Jethro Tull.



Quest’anno il disco Thick As Brick compie quarant’anni e per l’occasione il suo Autore ha realizza il seguito chiamandolo, a nome Jethro Tull’s Ian Anderson, semplicemente TAAB2 che sono le iniziali del precedente. “L’argomento del seguito – come spiega lo stesso Anderson nel booklet del CD uscito per la Emi con DVD annesso – concerne sia la disamina dei possibili diversi percorsi che il giovane e precoce studente Gerald Bostock avrebbe potuto intraprendere nel corso degli anni sia la creazione degli alter-ego le cui identità, nelle sezioni di brani loro dedicate, illustrano le svolte potenzialmente infinite, gli scherzi del destino e le diverse opportunità. Ma questo non vale solo per Gerald, è piuttosto la dimostrazione di come anche le nostre vite si sviluppano, cambiano direzione e alla fine si chiudono grazie a incontri casuali ed episodici, per quanto piccoli e insignificanti sembrino sul momento”. Musicalmente TAAB2 non si discosta molto dall’originale, segnando in tal senso un ritorno alle sonorità che rendono famoso Ian Anderson con i suoi Jethro Tull già alla fine degli anni Sessanta, fino ad assurgere al ruolo di rock star (ovvero un fenomeno planetario) proprio con Thick As Brick.


Anderson dal 1967 è il leader indiscusso di un quintetto che prende il nome da un celebre agronomo inglese del XVII secolo e che all’inizio propone una musica jazz-rock-blues in sintonia con quanto avviene in quei mesi sia in America sia in Inghilterra con il cosiddetto pop-jazz, da un lato Chicago Transit Authority o Blood Seat & Tears o Miles Davis dall’altro la scuola di Canterbury (Soft Machine in primis) o quella del british blues (John Mayall, il più jazzy). E in particolare sul jazz, Anderson scozzese di Dumferline, oggi sessantacinquenne, non ha timore di rivelare che il suo maestro, nonché fonte ispirativa, risulti da sempre il polistrumentista Roland Kirk (1936-1977). Di Kirk Anderson ama il suono del flauto, che riprende paro pari nei dischi e ai concerti, oltre comporre, cantare e suonare la chitarra acustica. Non è, Anderson, il primo flautista in assoluto nella storia del rock, ma è senz’altro quello più vicino allo stile di Kirk, il quale a sua volta non ha quasi eredi, continuatori, plagiari o epigoni.


E, dunque, in tal senso, si può davvero indicare Ian Anderson come l’unico seguace di Roland Kirk, sia pur in un linguaggio (genericamente definibile rock) tangente al jazz medesimo. Del resto non sono in pochi, nel rock britannico, a ispirarsi, sia pur indirettamente a jazzmen quali John Coltrane e Ornette Coleman per inventare nuove sonorità, benché alla fine siano i vecchi bluesman afroamericani la base su cui improvvisano gruppi (oggi visti come precursori dell’hard rock) dai Cream ai Led Zeppelin, dai Colosseum ai Ten Years After. Tornando però ad Anderson nel giro di pochi anni, tra il 1967 e il 1972, con sostanziali cambi nella formazione, il quintetto dei Jethro Tull, che ha Londra quale base operativa, passa dal blues-jazz al cosiddetto progressive (o prog rock) , imponendosi come band al contempo elegante e virtuosistica, focosa e passionale, eterogenea e raziocinante, ovvero con qualità analoghe a quelle dell’arte di Roland Kirk, il quale, nello steso periodo, sta seguendo un percorso similare che lo conduce dal quasi free al jazz elettrico.


Il flauto di Anderson al servizio della band sa inoltre mescolare e includere non solo elementi jazzistici ma anche e soprattutto referenti classici, folk, barocchi, rinascimentali. Ogni album nel primo quinquennio di vita dei Jethro Tull – This Was, Stand Up, Benefit, Aqualung e il citato Thick As A Brick – segna dunque sempre un nuovo capitolo di una ricerca spasmodica in cammino verso nuovi lidi espressivi che non rinunciano mai all’appeal comunicativo e a conquistarsi un ruolo egemone nella storia del rock. Al di là dei cinque album, curatissimi e ancor oggi resistenti all’usura del tempo (a differenza di altri gruppi prog), la controprova della costante ininterrotta vena di creatività di Anderson è fornita dalle esibizioni live, che si possono ripercorrere attraverso alcuni filmati d’epoca: si tratta di autentici tour-de-force, dove spicca l’immagine del leader che, in abiti da menestrello, improvvisa al flauto in piedi su una gamba sola, mettendo in repentaglio la propria salute, visto che a ogni recital Anderson perde sei chili per l’agitarsi sul palco, il soffiare nello strumento traverso, il dirigere la band con una semplice occhiataccia, al contempo cantando, ballando, suonando, parlando, improvvisando: anche qui le analogie con Roland Kirk si sprecano nel senso che tutti ricordano l’immagine del polistrumentista cieco che suona contemporaneamente due o tre sassofoni ed è circondato da una sorta di armatura di strumenti a fiato.


Ben presto l’icona dei Jethro Tull, nonostante la bravura dei molti comprimari che si susseguono, finisce con l’identificarsi solo con il leader nel bel mezzo della scena, quasi isolato dagli altri, troubadour antico e al contempo futurista, medievale e fantascientifico; come Kirk nel jazz, anch’egli nel rock rilegge passato e presente, puntando altresì su una simbologia visuale composta da stivali e calzamaglia, sciarpa e cappotto, colori sgargianti e fogge hippy, barbona lunga e capelli al vento. Anderson è perciò il primo in assoluto a suonare nel rock il flauto alla Kirk, quasi violentando lo strumento, tirandone fuori note acide, stridule, acute, sopracute, atonali e microtonali, sia pur ricondotte in un contesto ritmico assai pesante e regolare con i tempi binari tipici del prog. Oltre la maniera più jazzy, il flauto di Anderson è in grado di cambiare repentinamente registro, transitando in uno stesso brano verso atmosfere più liriche e sognanti, con lo strumento usato nei toni aulici precipui della tradizione classica e popolare. L’incantesimo però si rompe perché a un certo punto, dalla seconda metà degli anni Settanta, i giovanissimi non vogliono più i Jethro Tull e il prog rock, essendo attratti ormai da musiche più facili e dirette, che dal 1977 in poi, con una sola brutta parola, si chiameranno punk e che si perpetuano grazie ad esempio a Sex Pistols, Clash, Damned, Siousie & Banshees in Inghilterra o Ramones, Strangles, Dead Kennedys negli Stati Uniti; solo più tardi si arriverà persino a un punk-jazz che però non coinvolge minimamente il flautismo e l’arte in genere di Ian Anderson.


Per i Jethro Tull quindi inizia un lento inesorabile declino che si riferisce più al successo di massa che alla qualità della musica: resta comunque uno zoccolo duro di pubblico fedelissimo in tutto il inondo che segue il leader e la band nonostante i continui mutamenti di estetica musicale: l’Anderson da fine anni Settanta è infatti via via influenzato dal folk puro, dal synth-pop, dall’hard rock, da reminiscenze jazz-blues, dalla world music e da echi asiatici, fino a risalire la china della notorietà internazionale con il nuovo secolo quando, sull’onda di un rinato interesse per il prog rock anche da parte di un’audience giovanissima, nascono numerose tribute band e alcuni ex membri- sono addirittura in ventitré i musicisti che dal 1968 a oggi si alternano nel quintetto di Anderson – formano ipotetici gruppi jethrotulliani, spacciandosi talvolta come originali. Ma a questo punto interviene Anderson in persona a riproporsi in maniera integra con sempre nuovi progetti che da un lato rileggono trascorsi gloriosi dall’altro fanno ben sperare per un rock intelligente che attiri su di sé e al proprio interno le più svariate sollecitazioni culturali, ivi comprese le fresche energie di tanti linguaggi jazzistici. In fondo, ascoltando proprio il recente TAAB2, Ian Anderson al flauto resta l’unico autentico vitale seguace dell’inimitabile Roland Kirk.