John Cage e la musica jazz

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John Cage e la musica jazz.


Di John Cage quest’anno si commemora un doppio anniversario: il celebre musicista statunitense nasce infatti a Los Angeles nel 1912 e muore ottantenne a New York City nel 1992. Poche le iniziative in Italia che pure risulta quasi una seconda patria per il compositore che vi soggiorna a più riprese, a partire dagli anni Cinquanta per registrare l’elettronico Fontana Mix, quando lo Studio di Fonologia della RAI di Milano è all’avanguardia nel mondo e vi transitano per lavorare su nastri magnetici quasi tutti i geni della neosperimentazione dai suoi fondatori Bruno Maderna a Luciano Berio in avanti. John Cage all’epoca non ha molti soldi e per mantenersi il soggiorno italiano partecipa a Lascia o Raddoppia?, la celeberrima trasmissione a quiz con Mike Bongiorno, dove arriva in finale e vince il primo premio, non con domande sulla musica, bensì presentandosi quale esperto di micologia.


Purtroppo non si trovano i filmati di quell’esperienza, in cui oltre fare da concorrente, tra una risposta e l’altra, si esibisce quale autore di happening usando i mezzi più disparati – le lucidatrici e i frullatori ad esempio – per dirigere concerti di suoni meccanici. Quindi John Cage torna più volte in Italia dagli anni Settanta in poi, elaborando diversi progetti finanziati da enti comunali (Bologna, Milano, Ivrea); ma viene soprattutto accolto come nume tutelare da una nuova casa discografica, la Cramps Records, legata a suoi vecchi amici – Gianni Emilio Simonetti e Giulio Marchetti, entrambi con Cage già nel Gruppo Fluxus – intenzionati a sovvertire l’industria del 33 giri nei campi via via della musica colta, della canzone d’autore, del rock progressivo, del free jazz. E proprio partendo da quest’ultimo, il jazz, bisogna oggi riprendere in mano il filo del discorso su Cage per far luce su molti equivoci.


Anzitutto va ribadito che Cage non è ovviamente un jazzista – e nemmeno un improvvisatore stricto sensu – non solo perché non esistono collaborazioni, nemmeno indirette, fra lui e il jazz d’avanguardia o di altre scuole, ma soprattutto per il fatto che quella da lui ribadita e anche concettualizzata in diversi libri – oggi per fortuna ristampati anche in Italia dopo il provvidenziale Silenzio uscito da Feltrinelli già nel 1972 – è una teoria musicale totalmente estranea alla musica afroamericana, persino quella suonata dagli europei – la cosiddetta improvised music o creative music – che vuole spesso agganciarsi o appropriarsi delle esperienze dotte novecentesche.


Tuttavia John Cage fra tutti i compositori di area classica è senza dubbio quello che più influenza il jazz contemporaneo di matrice sperimentale, dal free al post-bop fino al rock medesimo; e proprio quest’ultimo è il tipo di musica che tributa i maggiori – e migliori – omaggi a Cage stesso, a cominciare ad esempio dal gruppo Sonic Youth. Alcuni invenzioni del compositore però vengono riprese dal jazz, in particolare a livello stilistico, a cominciare dal prepared piano – via via utilizzato da Cecil Taylor, Borah Bergman, Misha Mengelberg e quasi tutti i tastieristi free – per arrivare all’idea di happening sonoro tipico delle scene nordeuropee – il Kollektiev di Wilem Breuker in primis – ma anche delle band tra jazz e rock, ad esempio le Mothers Of Invention a Los Angeles o la prima psichedelia (Soft Machine e Pink Floyd) all’UFO di Londra.


In Italia, poi, grazie alla citata Cramps, alcuni musicisti partiti dal rock e dal jazz s’avvicinano alla musica di Cage per conoscenza diretta dell’autore medesimo: è il caso di Demetrio Stratos cantante degli Area – gruppo prog in cui viene spesso invitato un grande free man come Steve Lacy al sax soprano – che incide due album à la Cage, indirizzando la ricerca vocale all’estremo partendo da alcune indicazioni del compositore americano. Non è l’unico, in quel periodo, a dedicarsi a una sorta di free vocale, anticipato in tal senso da una jazz singer afroamericana come Jeanne Lee, in seguito perpetuato dalle bianche Joanna La Barbera, Laureen Newton, Meredith Monk.


E oggi non è un caso infatti che la più raffinata tra le etichette di jazz e nuove musiche, la ECM di Monaco, offra con As Its Is comunque un nuovo compact proprio interamente dedicato ad alcune composizioni cagiane, il quinto, sul compositore, dopo The Seasons, Early Piano Music (con Herbert Henck), Cikada String Quartet (In due tempi), Locations (ancora con Henck): il recente As It Is è quindi un album tutto cagiano, abbordabile persino con uno spirito jazzofilo, per il fatto che per il geniale alchimista sonoro, da molti stessi jazzmen ritenuto il più autenticamente rivoluzionario dell’intero Novecento, l’improvvisazione è una parte fondamentale del suo fare arte: non è però come variare su un tema come fanno gli afroamericani da Jelly Roll Morton a oggi, ma si tratta di “alea”, la casualità, ossia di un intervento a carico dell’interprete delle partiture, a loro volta aperte e disegnate per consentire un approccio mentalmente libero, secondo alcune filosofie orientali. Da tutto questo però Manfred Eicher produce, con As It Is, un disco molto pulito, fine, rarefatto, dove la componente avanguardista viene per così dire educata verso la piacevolezza dell’ascolto. Dunque niente choc e niente provocazioni, ma un John Cage accademicamente classico, anche grazie al lavoro di due straordinari interpreti come i russi Alexei Lubimov (pianoforte) e Natalia Pschenitschnikova (voce), che, giovanissimi, già lavorano con Cage a Mosca nel lontano 1988.


La scelta, poi, nel CD, di alternare i pezzi cantati a quelli suonati sulla tastiera (spesso con il già citato “piano preparato”), consente di meglio gustare le sonorità talvolta dolci, persino melodiche (o dal fascino arcano), di un musicista a torto ritenuto antimusicale, iconoclasta o iperfuturista. Nei ventun pezzi di As It Is, scritti negli anni Trenta e Quaranta (Dream; Music for Marcel Duchamp; Five Songs; Two Pieces for Piano) e registrati a Zurigo nel dicembre 2011 si avverte dunque un Cage quasi romantico benché certi improvvisi richiami suonino un po’ come il campanello d’allarme di una radicalizzazione prossima e venire.


Un altro importante elemento strutturale che i jazzmen, più o meno consciamente, riconducono a John Cage riguarda il silenzio: sempre più nella storia del jazz dal bebop in avanti – ma forse addirittura, prima ancora se si pensa a certi assolo di Louis Armstrong – si arriva a concepire la musica quale dialettica tra suono e silenzio, sfruttando abilmente gli intervalli o i microtomi durante la parassi improvvisativa; e in tal modo c’è un fil rouge che lega un pianismo post-bop che va da Lennie Tristano a Thelonius Monk, da Bill Evans a Keith Jarrett che accoglie il silenzio al livello di un momento altamente qualitativo. Si tratta del resto di una creatività che s’appoggia consapevolmente anche sul confronto silenzio/rumore come in molto free jazz oltranzista in Europa e negli Stati Uniti.


Ora su sull’argomento del silenzio “derivato” da Cage, esistono sempre nuovi libri come Per una storia del silenzio (Mursia) di Sergio Cipolani il quale sostiene che il silenzio esista non solo prima che inizi il concerto, ma soprattutto negli intervalli tra nota e nota, spostando il discorso sul silenzio verso una teoria multidisciplinare in cui antropologicamente si va dai contesti sociali agli aspetti psicologici e religiosi, non senza ovviamente citare il paradigma di John Cage in 4’33”, al quale peraltro è dedicato un altro intero libro. Infatti Il silenzio non esiste (Isbn) di Kyle Gann ribalta in parte le teorie di Cipolani, sostenendo come la celeberrima pièce – dove è prevista un’esecuzione al pianoforte con il pianista a braccia conserte per quattro minuti e trentatré secondi – resti il fulcro di un iter creativo che porta a esiti artistici rivoluzionari, giocando proprio sul valore estremo del silenzio medesimo.


Del resto lo stesso Cage intervistato nel 1966 da David Sylvester, ora in John Cage (Castelvecchi) dice che «Il silenzio è dato al mondo. Siamo immersi in un mondo di suoni. Noi lo “chiamiamo” silenzio, quando non sentiamo un collegamento diretto con le intenzioni che producono i suoni. Diciamo che c’è silenzio quando, a causa della nostra non-intenzione, ci sembra che non ci siamo suoni. Quando ci sembra che ce ne siano tanti, diciamo che c’è rumore».