Roma Jazz Festival. Visual Jazz

Foto: Fabio Ciminiera










Roma Jazz Festival. Visual Jazz.

Roma, Auditorium Parco Della Musica – 12.10/25.11.2012

La trentaseiesima edizione del Roma Jazz Festival è dedicata allo stretto legame che ha da sempre accompagnato il cinema alla musica jazz. Un connubio che ha avuto nel tempo un ruolo importante nello sviluppo di entrambe le arti: nel 1927 nel primo film sonoro della storia, “The Jazz Singer”, la parola jazz faceva la sua prima apparizione sugli schermi cinematografici; da allora pagine memorabili di musica ed immagini sono presto divenute leggendarie, dalle improvvisazioni di Miles Davis che accompagnano il film francese “Ascensore per il patibolo” fino a “?Round Midnight” con attori protagonisti Dexter Gordon, Herbie Hancock ed altri jazzisti, passando per l’omaggio di Clint Eastwood alla figura di Charlie Parker in “Bird”.


Un rapporto negli anni sempre fecondo che la rassegna, dal titolo Visual Jazz, ha voluto riprendere ed indagare invitando gli artisti a cimentarsi con le immagini di vecchi film o installazioni di video ed immagini originali. Una sfida intrigante per la verità non raccolta da tutti i musicisti n un cartellone dalle molte conferme (positive ma anche negative) e dalle poche sorprese.


Il primo a confrontarsi con le immagini di una pellicola che ha fatto storia è Fabrizio Bosso che, alla guida del suo quartetto, rielabora con gusto i temi centrali della colonna sonora de Il Sorpasso in improvvisazioni che seguono intelligentemente lo scorrere del film proiettato in larga parte alle loro spalle. Non da meno riuscite le sonorizzazioni originali eseguite dal duo Pietropaoli & Rabbia che, tra rumorismi e swing, danno anima ad una serie di corti inediti di cartoni per bambini ma non solo. Musica ed immagini che ritornano anche nel concerto del magnifico trio formato Sclavis, Texier e Romano. I tre artisti musicano gli splendidi reportage del fotografo Guy le Querrec nel continente africano nel decennio compreso tra la metà degli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio. Un viaggio davvero suggestivo fatto di scatti in bianco e nero e gli assoli free di un trio in splendida forma che si conosce davvero bene. Sclavis alterna soprano e clarinetto basso con estrema disinvoltura confermandosi ancora uno dei migliori strumentisti al mondo con fraseggi davvero ispirati dal forte sapore free; impeccabile di contro la ritmica corposa e solida formata dai suoi due compagni che completano un trio davvero entusiasmante. Una musica difficile ma che rapisce in una imprevedibile quanto mai precisa simbiosi con le immagini del grande fotografo francese in un quartetto di intellettuali a tutto tondo davvero raro.


Le noti dolenti, e anche abbastanza preventivate, arrivano invece da quelli che sulla carta venivano presentati come gli eventi di maggior richiamo. Il primo nome grosso in cartellone a sbarcare al festival è Herbie Hancock in piano solo. Circondato da tastiere, laptop e sintetizzatori vari, Hancock inizia la sua performance con una lunga versione di Maiden Voyage al piano che lascia presagire ciò che in realtà non sarà. Il brano infatti rappresenterà l’unico momento acustico della serata, con il pianista che ripercorre alle tastiere soprattutto la sua carriera elettrica degli anni settanta infarcita di fusion e funk, ma che nella dimensione in solo fatica a prendere corpo. Non convincono nemmeno le diavolerie elettroniche che maneggia sapientemente per tutta la serata mentre nel finale è sufficiente una carrellata dei suoi successi più commerciali, da Cantaloupe Island a Watermelon Man fino alla conclusiva Rock It per mandare in visibilio la gremita sala Sinopoli.


L’altro nome di grande richiamo è quello di Joe Jackson, artista in voga sul finire degli anni ’70 e tornato recentemente alla ribalta con un disco dedicato alla figura di Duke Ellington. Accompagnato da un sestetto di valore, impreziosito dalla presenza di una favolosa Regina Carter al violino, Jackson alterna il piano elettrico all’organetto rileggendo con eleganza alcuni dei più noti temi del songbook di Ellington in chiave pop patinato, dove a spiccare sono soprattutto le qualità della sua valida band, puntuale e precisa sia nelle parti più tipicamente jazzistiche che in quelle pop e latin. Uno show comunque piacevole curato nei dettagli per un pubblico trasversale, con una prima parte poggiata sui brani dell’ultima uscita discografica in cui vengono ripresi temi familiari anche ai non jazzofili come In A Sentimental Mood, Caravan e Mood Indigo, in lunghe medley ben arrangiate. La seconda è inevitabilmente invece un riassunto della lunga e fortunata carriera del cantante inglese, con una serie di hit cantante a menadito da una compiaciuta platea.


Non certo entusiasmante anche la prova del batterista franco africano Manu Katché, nome legato più che altro agli ambienti rock soprattutto come turnista ma con interessanti progetti jazz a proprio nome licenziati da etichette come l’ECM. Alla guida di un quintetto formato dai trombettisti Molvaer e il nostro Aquino, dai sassofoni di Brunborg e dal piano e hammond di Gorman, appariva sulla carta intrigante soprattutto per la formazione eterogenea che componeva l’atipico ensemble. Tuttavia la formazione dà fin da subito l’impressione di essere alquanto improvvisata e mal amalgamata. L’assenza del basso si fa sentire e viene mal rimpiazzata dai tasti dell’hammond, i tre solisti, se non in sporadici momenti, non interagiscono tra di loro limitandosi a vari soli fini a se stessi e lo stesso Katché non fa altro che far sfoggio della sua tecnica in fill di batteria peraltro spesso privi di gusto, con un Molvaer stranamente spaesato e un Aquino che si prende giustamente la ribalta per sé.


E così, come spesso accade, le cose migliori le fanno vedere i giovani musicisti, il più delle volte non premiati da una presenza di pubblico adeguata. È il caso del trombettista americano Ambrose Akinmusire che con il suo quintetto ha deliziato con un bop moderno fatto di brani originali e uno stile davvero invidiabile a metà strada tra Clifford Brown e Freddie Hubbard. Una vera sorpresa e un artista di cui sentiremo ancora parlare. Già stella a livello mondiale è invece il nostro Gianluca Petrella che dà vita probabilmente al più convincente spettacolo visto al festival. Leader di un sestetto davvero ben strutturato, con l’aggiunta dell’altrettanto indovinata voce dell’ex Quintorigo John De Leo, il trombonista ha reinterpretato le musiche di Nino Rota in versione moderna dove elettronica, swing e free si fondono in un ambiente sonoro poliedrico davvero riuscito grazie a degli arrangiamenti davvero degni di nota. Fusioni tra rock e jazz ritornano nel progetto Monk’n roll del quartetto di Francesco Bearzatti. Idea interessante in cui i temi del geniale pianista vengono reinseriti su basi rock della ritmica potente formata da Gallo e De Rossi, anche se qualche sperimentazione di troppo alla fine risulta eccessiva.


La chiusura del festival è stata, infine, affidata alla coppia Bollani-Grandi. Presenti in grande stile da giornali e televisioni, il loro concerto fa registrare il tutto esaurito nella Sala Santa Cecilia. I due, però, riprendono temi popolari modellati sulla voce della Grandi con risultati abbastanza deludenti dove nemmeno le qualità del pianista milanese riescono a alzare il livello di un progetto che ha l’aria di essere semplicemente una trovata commerciale ma che, ancora una volta, riscuote incredibilmente un successo di pubblico invidiabile.