Foto: Nanni Angeli
Le esplorazioni sonore di Paolo Angeli.
Curiosità e voglia di modificare i suoni degli strumenti: dal solo agli incontri in duo e alle formazioni più articolate, Paolo Angeli mette in luce una maniera del tutto personale di intendere il ruolo del musicista e l’utilizzo stesso della chitarra, preparata e modificata per trovare soluzioni sonore diverse e intriganti. Siamo partiti dalla Piccola Orchestra Gagarin… il resto lo si scopre domanda dopo domanda.
Jazz Convention: Come nasce Piccola Orchestra Gagarin? e come nasce il nome?
Paolo Angeli: Nasce per caso come tutte le cose magiche ed è a tutti gli effetti un amore a prima vista. Camminavo per i vicoli di Barcellona (città dove vivo dal 2005) e sentì un suono di violoncello caratterizzato da riff minimali: era Sasha Agranov che suonava di fronte al museo picasso. Abbiamo stretto da subito un rapporto di amicizia e tramite Sasha ho avuto modo di conoscere Oriol Roca. Avevamo voglia di sperimentare dal vivo un incontro a tre, senza rete, completamente a braccio. Abbiamo scelto il robadors 23, un club sito nella strada più malfamata del Raval (barrio chino), tra puttane, spacciatori, scazzotate e volanti della guardia urbana. A distanza di poche settimane abbiamo riproposto la cosa in un contesto più ufficiale. Quel concerto è stato immortalato sul cd platos combinados e per quella occasione abbiamo scelto il nome di Piccola Orchestra Gagarin: piccola perchè siamo in tre, orchestra perchè tutti cerchiamo un estensione delle potenzialità timbriche dello strumento, e Gagarin perchè ci ispiriamo a lui per la voglia di esplorare e di conoscere lo spazio illimitato della musica.
JC: Soprattutto come nasce l’incrocio di suoni tra corde e percussioni…
PA: Basiamo molto il dialogo sulla poliritmia e sull’inseguimento melodico. La sfida è infrangere i confini ed i dogmi e il gioco è dare un senso di musica composta anche alle parti più libere. Parlo anche dei dogmi che hanno reso idiomatica la musica improvvisata, portandola nel vicolo cieco di in una musica per pochi eletti. Rifiutiamo questo concetto, ci consideriamo improvvisatori ed esprimiamo la nostra poetica ora con radicalità, ora con slanci melodici estremamente lirici, ma è sempre l’improvvisazione la chiave per affrontare i nostri concerti.
JC: Quali sono i riferimenti del trio? all’ascolto si avverte una miscela di suoni delle tradizioni mediterranee (catalane, còrse, sarde, provenzali) con folgorazioni moderne, attraverso intenzioni estremamente libere e libertarie.
PA: Non ci poniamo limiti. Non abbiamo mai fatto una prova: ci troviamo per mangiare insieme, discutiamo di vita, di cibo, di musica. Alla base c’è una complicità fortissima. È interessante analizzare il processo che genera il magma disordinato che di volta in volta prende vita dal vivo. Abbiamo percorsi paralleli e quando ci incontriamo condividiamo nuove scoperte, idee, suoni. Nasce una musica libera dai pregiudizi, che può avere un gusto ‘tom waits’ come derive nel mondo arabo oppure sonorità post rock.
JC: Quali sono i percorsi artistici dei tuoi due compagni di viaggio, Sasha Agranov e Oriol Roca?
PA: Entrambi hanno un percorso nell’ambito della musica senza steccati: Sasha ha radici nel barocco, Oriol nel Jazz, ma entrambi hanno studiato al conservatorio dell’Aja Musica elettronica. Puoi trovare Sasha con il progetto Selva de Mar, oppure nella compagnia Circus delirium, insieme con Patty Smith e rock band giapponesi nei grandi stages di Tokio, e la stessa cosa succede con Oriol, impegnato con in solo, con il Vrak’ trio, con la Mala Rodriguez, con Refree o Amanda Jayne. Entrambi riescono sempre a trovare il modo creativo per dar vita a parentesi di follia anche nella musica più strutturata.
JC: Nel vostro disco del 2010, Platos Combinados, praticamente raccontate il viaggio di questo piccolo manipolo di esploratori spaziali, andando anche a riprendere l’estetica delle esplorazioni dei cosmonauti sovietici.
PA: È stato molto bello studiare quel momento storico, calarsi nello stato d’animo di un essere umano che sfida l’ignoto e atterra nel posto sbagliato, cavia di una superpotenza in gara con gli USA. L’urlo liberatorio “Poyekhali (andiamo!!)” nel momento in cui Vostok lascia la terra, la visione dallo spazio delle forme del nostro pianeta, il relativismo che emerge da quel punto di vista, i 108 minuti di quel 12 aprile 1961 sono per noi un motivo di forte ispirazione. È un sinonimo di avventura, di rischio, di adrenalina che si sprigiona nell’approccio con il non conosciuto. Abbiamo costruito noi stessi delle tute che indossiamo sempre ai concerti, i nostri amici ci regalano medaglie e oggetti che riportano a quella avventura e, di volta in volta, i nostri vestiti si consumano, usurati dalla nostre missioni don chisciottesche. Per noi è come calarci in un’altra dimensione. Abbiamo suonato con 40 gradi a Bologna indossando i caschi, sudati fradici e abbiamo rischiato di mandare per aria la diretta su radio 3 nacional españa perchè all’ultimo momento ci siamo resi conto che dovevamo ancora indossare le tute. Ovviamente non c?era nessuna telecamere e nessuno spettatore,e ciò può farti capire il livello di follia che c’è nel gruppo!
JC: Mi piacerebbe spendere una parola sulla Whatabout Music con cui è uscito il lavoro…
PA: È un’etichetta che si sta sviluppando in direzioni differenti, producendo lavori eccellenti di taglio stilistico estremamente diversificati. Dave Bianchi è la mente e il braccio di questa bellissima label: ha una sensibilità musicale molto raffinata, un gusto avant pop che caratterizza tutti i lavori da lui prodotti e allo stesso tempo è curioso, capace di mettersi in gioco su progetti diffrenti. Negli ultimi mesi ho partecipato come sider ai cd di Amanda Jayne e Tal Ben Ari, lavori che verranno prodotti dal Whatabout music nei prossimi mesi. Amanda Jayne è una song writer eccezionale e penso che rappresenti al 100% lo spirito musicale della label.
JC: Mi dicevi di un vostro prossimo tour in Israele. Lo spettacolo dal vivo come viene organizzato? ci sono nuovi brani? esplorazioni musicali di nuova produzione?
PA: Avremmo dovuto suonare in 7 concerti consecutivi in club, gallerie d’arte e accademie di musica, tutti spazi molto belli, luoghi in cui circuita musica di eccellente qualità. Nell’ultima settimana, a seguito dello sviluppo degli eventi nella striscia di Gaza , abbiamo dibattuto a lungo su che decisione prendere. Da un lato provavamo un profondo disagio e dissenso per le stragi di civili compiuta davanti alla totale assenza di una mediazione internazionale, dall’altro lato sentivamo l’urgenza di confrontarci con la popolazione israeliana e discutere con loro. Fare il musicista permette di conoscere il mondo da un punto di vista molto simile a quello di un reporter: la realtà viene recepita senza i filtri dei mass media, attraverso i contatti diretti con esseri umani che si raccontano. Andare a suonare in certi luoghi è a mio avviso estremamente importante. Inizialmente l’idea era quella di prendere una posizione pubblica nei concerti contro quello che stava succedendo: usare la musica come occasione per riflettere e far riflettere. Ma sarebbe stato troppo rischioso in questo momento e a mio avviso irrispettoso e poco elegante visto il contesto generale. Per cui abbiamo optato per rinviare il tour.
JC: Parlando delle tue attività, stai per produrre un nuovo disco in solo, chiamato anche in questo caso con una metafora culinaria, Sale quanto basta: quali sono le direzioni di questo nuovo lavoro?
PA: È un lavoro a cui mi sento profondamente legato. Dopo Tibi, che a tutti gli effetti era un guardare indietro verso il mio percorso, Sale Quanto Basta traccia un nuovo punto di partenza. Tutte le composizioni sono inedite, complesse ma allo stesso tempo basate sulla ricerca di una cantabilità. Sono molto contento del risultato: è stato registrato in 5 ore, in presa diretta su 18 piste separate. Lo sento come un disco scritto di getto e realizzato in un contesto ideale: immerso nella campagna gallurese, nel fantastico studio Casagliana di Raffaele Musio (collaborazioni con Morricone, Brain Eno etc). Sale quanto basta è maturato a Barcellona, in circa un anno di gestazione. Si sente il sole che traccia le rughe sul viso, il mare, il mio sguardo rivolto alla Sardegna dall’altra sponda. Il sale conserva, permette di trasportare il cibo, è alla base del rendere un piatto più o meno saporito: dosarne la quantità sintetizza lo spirito di totale improvvisazione che hanno le nostre mamme in cucina. La musica esprime il mio presente di uomo legato al mediterraneo, alla sua cultura millenaria di traffici di cibo, merci, storie, lingue: sale qb è bonaccia e tempesta.
JC: Anche in questo caso, ascoltando le anteprime che hai messo in rete, si legge l’incrocio di sonorità acustiche e sperimentazione. Come si sviluppa il tuo processo di costruzione dei brani? L’aspetto compositivo e la manipolazione dei suoni come si integrano tra loro?
PA: Ogni mattina inizio la giornata suonando 2 o tre ore, registro le bozze delle idee che affiorano ed inizio a lavorarci. Esco di casa con le cuffie e ascolto il materiale ancora grezzo. In questo processo l’apprendimento tecnico del brano va di pari passo con la stesura della composizione. Una volta che la struttuta dei brani mi piace, inizio a lavorare all’orchestrazione. Considero la chitarra preparata come un combo di strumenti diversi: assegno le parti, creo un discorso timbrico che movimenti lo sviluppo di un’idea. Per ultima arriva la sezione elettronica: distorsione, delay, tremolo. Da quel momento inizia la fase più complessa: passare dall’indipendenza ritmica in acustico, ad un’ulteriore indipendenza che permetta di gestire il pensiero e tenere sotto controllo lo sviluppo timbrico dato dall’uso degli effetti. Avendo i piedi impegnati nella scansione ritmica dei martelletti, l’azione delle eliche per i bordoni e della sezione effetti, avviene quasi esclusivamente con l’uso della mano sinistra. È un lavoro di artigianato sonoro che richiede tempo e pazienza. A quel punto arrivi ai live e vedi maturare la musica dal vivo, scegliendo di volta in volta se prediligere l’immediatezza dell’acustico o un suono più rock.
JC: Questo nuovo lavoro viene dopo due diversi incontri con sperimentatori musicali: Giornale di Bordo, con Antonello Salis, Hamid Drake e Gavino Murgia e il duo con Pasquale Mirra. Qual è il tuo bilancio rispetto a questi progetti?
PA: Il disco Giornale di Bordo da solo un’idea parziale di quanto sia ricco un nostro live. Ci siamo trovati a registrare in studio senza aver mai suonato in quartetto. Vedere un concerto di GdB è un qualcosa di magico: non sai mai da che parte andremo ad approdare. Siamo 4 pirati che viaggiano a braccio in modo umorale e scomposto, con isole che tocchiamo di volta in volta (Suerte, Dear prudence, Corsicana etc). Con Pasquale ho suonato dal vivo la settimana scorsa ed ho trovato molto bello confrontarmi con lui e con uno strumento come il vibrafono. Fa parte di quegli incontri che non rientrano in una progettualità ma piuttosto nell’ambito delle relazioni occasionali, differenti da storie condivise come il duo con Fukushima, con Salis, Drake e appunto GdB. Ma non escludo a priori che da un concerto improvvisato possano nascere le basi per una collaborazione duratura.
JC: Quanto i vari incontri si riflettono sul tuo concetto di performance solitaria? che è una parte importante della tua attività.
PA: Nelle collaborazioni finisci per rivestire un ruolo. Nel quartetto suono molto come un bassista, nel duo con Salis lavoro molto sulla poliritmia, nel duo con Drake sulll’aspetto melodico e armonico, con Fukushima lavoriamo come una rock band e con Piccola Orchestra Gagarin il ruolo cambia in continuazione con estrema dinamicità. Quando ritorno al solo mi accorgo che ho sviluppato tutte queste linee in modo differente e in qualche modo le riconduco, arricchendo il mio vocabolario. Sarebbe noiosissimo suonare solo in Solo e altrettando noioso doverne fare a meno.
JC: La chiusura la volevo lasciare per il tuo strumento la chitarra sarda preparata. Credo che la sua realizzazione e il tuo suonarla siano in realtà una sperimentazione e un processo di crescita in continuo divenire.
PA: Esatto. È molto bella la sensazione del vedere come semplici intuizioni a distanza di quasi ventanni sono la base fondante di uno strumento nuovo che mi permette di esprimermi con totale immediatezza e libertà. Devo molto agli artigiani che mi hanno seguito nell’ideazione e in particolar modo a Francesco Concas e la liuteria Stanzani. Attualmente a Barcellona collaboro con la liuteria Brussolle dove stiamo lavorando a nuovi prototipi ispirati all’arpa celtica e al clavicembalo. Allo stesso tempo mi godo la sensazione di essere completamente a mio agio nel confronto con la chitarra: penso di conoscerla e di convivere in armonia con quanto finora è rimasto ‘incastrato’ sul corpo della chitarra sarda.
JC: Come è nato il bisogno di intervenire sullo strumento e come hai operato via via nelle modifiche?
PA: La trasformazione nasce da un’esigenza compositiva o dal semplice impulso creativo di voler costruire un oggetto sonoro e sonante. Allo stesso tempo ha una funzione terapetica. Cambiando lo strumento, devi cambiare tu come esecutore, imparare ad approciarti con una nuova fisicità, conoscerla e governarla. È una sensazione molto bella veder nascere uno strumento e seguirne le trasformazioni negli anni. Spero di potermi permettere questo privilegio per tutta la vita.