Edouard Ferlet – Think Bach

Edouard Ferlet - Think Bach

Mélisse – mel 666011 – 2012




Edouard Ferlet: pianoforte





Una malintesa visione “modernista” – o peggio ancora modernizzante, e il malvezzo non è nemmeno recente – ambisce a conferire maggior fruibilità d’ascolto, quando non “nuove linfe vitali” ai materiali del mondo classico che, per i cultori avveduti e in mano ad interpreti capaci, non si può liquidare come “retaggio del passato” vincolato nell’espressività e nelle formule espositive.


Non fosse per l’equivoco del veder “patire” le linee compositive entro il pentagramma costrittivo e castrante, ma “esser liberi entro una struttura” non era poi forse l’aforisma di tanti tra i più eversivi esponenti del free?


La genuinità, poi, dell’interpretazione classica ha certamente risentito del progressivo rimodellamento dell’estetica globale, e molto di ciò può essere sintetizzato nella frase dell’ibrido violinista Nigel Kennedy «L’interpretazione classica non può prescindere dal considerare l’evoluzione in oltre 150 anni dai mezzi di comunicazione di massa!» – e chi la vuol capire capisca per non dover affrontare tutte le incombenze (multimedialità inclusa!) di questa non immediata affermazione – fra le varie possibili.


Questo (e tanto altro) non ci ha riparato da restaurazioni & riletture operate, e chissà con quanta genuinità d’intenti, che hanno fatto riconsiderare la pertinenza di “eccelsi esponenti del jazz” (e del pianoforte in particolare) se dobbiamo riconsiderare le prove dei Brubeck, Loussier, Corea o Jarrett davanti a materiali classici che sopravvivono adamantini non certo “grazie a” quanto e piuttosto “nonostante” le volenterose incursioni di questi big, separati non solo dalla variabile buona fede ma anche dalla diversificata qualità d’approccio e produzioni.


Qualcosa di differente, senza clangori, e in un apprezzabile, schivo spirito esplorativo nel progetto Think Bach del giovane pianista Edouard Ferlet, rappresentante di una melodica “ligne claire” del jazz, e già avvezzo anche a frequentazioni di spirito cameristico nelle varie precedenti incisioni della sua Mélisse Music.


Appare d’inventiva lucidità «Come si può destrutturare la musica di Johann Sebastian Bach quando la sua opera è di suo talmente strutturante?» la nota programmatica di copertina e, nel corso del programma, evidente, ma mai paludata o didascalica, la “costante tensione tra riproduzione e invenzione” (piuttosto pallida e in libertà la prima, coinvolgente e palese la seconda).


Molto qui si è attinto al Clavicembalo ben Temperato di Johann Sebastian Bach che, se non può vantare le prime posizioni nelle “top-charts” della cultura generale classica, pure vanta un notorio, quieto tema espositivo che fa apparire quanto meno spregiudicata l’entrata d’emblée entro la carpenteria dello strumento-pianoforte (Analecta), l’onda elettrica della comunicazione trova dunque ristoro nell’intimismo evansiano profuso nell’esposizione chiaroscurale del Preludio in la minore (Dictame). L’invenzione ricamata e la fluidità minimale della rilettura cellistica (À la suite de Jean) e la dilatazione delle ariose diteggiature del liuto (Lisière), lo stupore cosmico e l’ingenua preghiera infantile ribaltati e dinamizzati nella pur pensosa Que ma tristesse démeure, l’opportuna ripresa d’un caposaldo della tastiera quali le Goldberg-Variationen di cui s’amplifica il gassoso nucleo impressionista (Diagonale), congedandosi dalla sfaccettata riesposizione bachiana conferendo febbrile ritmicità ad un’ennesima pagina del Clavier (Réplique).


Se il Kantor fu meritorio e insieme reo di aver intessuto e ceduto in lascito un materiale pienamente immerso nel continuum tra passato e futuro, che, se può apparire nella sua fraseologia totemica ed enigmatica, è scrittura di franca futuribilità che consente nella prova presente di dilatare la frase lungo respiri di discorsività romantica, innervando di armonizzazioni novecentesche le tensioni vibranti dell’esposizione.


Le seriche trame melodiche e le immani architravi armoniche sono oggetto-soggetto della lettura personale, dell’applicazione “critica” ma soprattutto di una prova generosa del giovane ad ulteriormente convincente Ferlet: senza mai davvero distaccarsi dall’eruttività melodica del corpo lirico e pensante del pianoforte, senza velleità alcuna di “giocare con i classici” – seppur giocosa e coinvolgente è qui la continua riscoperta, in una chiave non sofisticata – all’insegna di un’ironia intelligente, sempre rispettosa della scrittura bachiana, di una ricerca sensibile della valenza melodica che ben più che una rilettura jazz (con tutte le possibili, già esposte obiezioni) opera un’immersone nella sfera della “musica totale” di materiali di naturale potenza e, ove correttamente approcciati, liberi dall’esposizione epocale e “di genere”.