Slideshow. Massimo Barbiero

Foto: Luca D’Agostino










Slideshow. Massimo Barbiero.


Jazz Convention: Così, a bruciapelo chi è Massimo Barbiero?


Massimo Barbiero: Una persona che percuote pelli, legni e metalli… illudendosi per pochi istanti di essere libero ed immortale, di aver fermato il tempo (il proprio tempo) come un bimbo che gioca con i suoi giocattoli nella sua stanza.



JC: E – quasi bruciapelo – puoi parlarci del lavoro discografico in generale?


MB: Sono venticinque anni ormai, è difficile darne un quadro “generale”.



JC: L’approccio concertistico per te in cosa è diverso da quello discografico?


MB: Sì, differente, il concerto è un’esperienza fisica, quasi spirituale nel senso più laico del termine, ma al tempo stesso con caratteristiche professionali che devono garantire “lo spettacolo” non si può e non si deve improvvisare.



JC: In che senso?


MB: Nel senso che ci devono essere delle garanzie per il pubblico, verso quello che verrà a vedere, al tempo stesso si devono creare condizioni per poter suonare “liberi” sia all’interno delle strutture che nelle condizioni in cui ci si troverà e non sempre le due cose coincidono.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista?


MB: Non credo ve né siano di “logici” è accaduto era ciò che mi rendeva felice probabilmente, se invece intendi professionalmente sono circostanze, coincidenze, scelte di vita. Ma essere un musicista non sempre significa produrre denaro, quello è l’elemento politico che se pur importante non coincide con esser veramente un musicista. Per me, e non solo per me, questo significa uno stato, una percezione della vita in relazione al suono, all’esprimere se stessi attraverso un linguaggio, come direbbe Schopenhauer che è la rappresentazione della volontà.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto scegliere il jazz?


MB: E chi dice sia jazz… scommetto che in molti non pensano che lo sia: non è un granché questo ambiente e ad ogni modo forse non l’ho scelto… forse mi ha scelto. È così commovente quasi fa tenerezza sentire tutta questa gente che ti spiega cos’è il jazz, quali sono i cd da isola deserta, cosa non lo è.



JC: È un po’ come i programmi tv sul calcio?


MB: Certo, ognuno con la sua verità, l’analisi di una settima diminuita come un rigore non dato, l’analisi delle forme come un 4-4-2, un nuovo progetto come calcio mercato: una saccenza, una dietrologia, una miseria tipicamente radical chic e magari fosse solo quello!



JC: Perché hai scelto proprio la batteria come strumento privilegiato?


MB: Un psicologo troverebbe molti motivi, io né avrei di più legati alla mia infanzia ma non credo che abbia troppo senso cercarli e ancor meno spiegarli, potrei forse dire che l’assenza del suono determinato (finché non ho cominciato a studiare vibrafono, marimba, xilofono, eccetera) offre un senso di libertà maggiore.



JC: In che modo libertà?


MB: Libertà al di fuori di quello che è “il sistema temperato” il suono di tamburi, piatti, gong, tronchi rimanda alla natura, ad un suono arcaico più dentro il mondo forse… ma un bambino lo sa? lo sente? Forse si, forse è quello che mi affascinava…



JC: Cos’altro ti seduce nel suono delle percussioni?


MB: Poi c’è il ritmo, il definire tempi, cicli, movimenti: all’interno di un gruppo deciderne “l’intenzione”, c’è molto dietro una scelta



JC: E il jazz? dunque ha ancora un significato oggi la parola jazz?


MB: No, non per quello che intendono i mass media, un sottofondo da aperitivi, con trombettisti e sassofonisti che devono recitare una parte da personaggio da “commedia dell’arte” come se tutti i sassofonisti fossero tipo Charlie Parker o i pianisti come Bill Evans e non ho detto nomi contemporanei che si vedono in tv.



JC: Pensi quindi che sia andato perduto qualcosa del jazz?


MB: Si è perso molto delle radici di quella musica, sia in senso culturale sia in quello politico, con il jazz ormai si intrattiene, cercando di non disturbare chi ascolta, e una certa critica ha agevolato questo cosiddetto pensiero.



JC: Forse quindi per te più che “jazz” ha più senso oggi la parola “musica”?


MB: Per me c’è l’ha, ma vale anche qui il concetto espresso sopra, in Italia non c’è un’educazione musicale, non c’è mai stata, il programma delle scuole medie rasenta l’imbarazzo, gli insegnanti non sono nemmeno legittimati in quel ruolo, dimostrazione del livello che questo Paese ha dell’insegnamento dell’arte e della cultura – da Dante a Verdi da Michelangelo a Modigliani – insomma dovremmo coltivare quella storia e invece…



JC: E invece, Massimo?


MB: Invece questo è il paese di San Remo, esportiamo Arbore, Allevi, Bocelli, la Pausini, mancano dirigenti con competenza, manca uno standard minimo, come negli Stati Uniti o in Olanda, in Francia o in Svezia, dove la musica è considerata sia un valore sia una risorsa economica, ma qui nemmeno si intuisce quanti disastri sono stati fatti da una classe dirigente inadeguata.



JC: Ma allora cos’è per te la musica?


MB: Tutto, o la maggior parte del tutto.



JC: E cos’è invece il jazz?


MB: Libertà…



JC: Sai spaziare in diversi linguaggi sonori; ma come ti consideri in fondo: un jazzista, un compositore o altro?


MB: Nessuno dei due, né compositore né jazzista, così nessuno si arrabbia, a parte gli scherzi non so… forse un improvvisatore che definisce via via le proprie idee fermandole, cercando di definire una forma, uno stato d’animo, un clima. Usando una parola grossa, un’estetica…



JC: In effetti “estetica” è una parola complessa, un concetto da approfondire…


MB: Qualcuno in questi anni, nel mondo critica, dice che esiste un'”estetica” in Enten Eller e in Odwalla, ma anche nei miei lavori in solo: quindi un po’ mi sono avvicinato a quel che avrei in mente.



JC: Cerchiamo quindi di leggerti nel pensiero: quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica?


MB: Solitudine, melanconia, ma anche forza, energia senso del distacco. I miei interessi di filosofia influenzano molto la musica che suono o che compongo. C’è sempre un concetto alla base di un disco, di un brano di un progetto.



JC: Come pensi che si evolverà la musica (e il jazz in particolare) nel presente e magari nel futuro?


MB: Dipende da come si evolverà il mondo occidentale, dall’economia. Internet ha cambiato molte cose, ma la musica non può essere sostituita, il problema e riportarla al centro, e questo e legato al mercato, creare situazioni creative, superare gli aperitivi: avere una critica preparata che parla nel merito, che segue cosa accade di nuovo.



JC: E dove può ricercarsi o ricrearsi il nuovo?


MB: In assoluto ciò che esiste dall’inizio del jazz, ossia la “contaminazione”, che è l’unica strada percorribile, la chiamino world o come preferiscono i critici: che la facesse Don Cherry, Art Ensemble, Joe Zawinul o Cecil Taylor, è sempre la stessa cosa, cercare se stessi negli altri attraverso il confronto!



JC: Tra i molti dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?


MB: Forse Nausicaa e Keres, i due cd in solo. Ma, come ti direbbe chiunque, ogni cd rappresenta qualcosa d’importante a suo modo. Medusa di Odwalla o Ecuba di Enten Eller.



JC: E tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?


MB: I sei mottetti di Bach diretti da Harnoncourt, il Ludus tonali di Paul Hindemith, People In Sorrow dell’Art Ensemble Of Chicago, ma è un gioco che potrebbe non finire mai.



JC: I tre migliori batteristi per te?


MB: Ne dico quattro: Paul Motian, Andrew Cyrille, Max Roach e… Jon Christensen.



JC: E i tre percussionisti?


MB: Ne cito invece solo due: Manolo Badrena e Mino Cinelù!



JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?


MB: La fine di un concerto, l’uscita di un cd: un lavoro portato a termine, insomma.



JC: E quali sono i musicisti con cui ami collaborare?


MB: Quelli che ascoltano…



JC: E più in particolare la situazione della cultura a Ivrea quella che da sempre è la tua città?


MB: Quale cultura… quale città… vivo in un ex città, che oggi è un grande paese, ma pensare a un progetto culturale mi sembra, come dire, esagerato: a Ivrea ci si tira le arance a Carnevale, altro non c’è più.



JC: Ma esiste un jazz di Ivrea, eporediese o canavese che dir si voglia?


MB: No, non esiste, tolto il fatto che io e Brunod e forse Laura Conti siamo nati e viviamo a Ivrea (o nei dintorni) non ci sono motivi per dire che qui avviene qualcosa di rilevante per il jazz o per la cultura, siamo nati qui, punto e basta. Organizziamo due festival e registriamo dischi in loco, ma è qualcosa più diretto all’esterno che non a questo territorio.



JC: Di chi la colpa di questo degrado?


MB: Il dopo Olivetti ha creato a Ivrea un deserto culturale, vi è un provincialismo da paesone che non può rappresentare i lavori che noi, come Enten Eller, Odwalla, Brunod o Conti produciamo e che vengono recensiti nel mondo: sarebbe bello, ma qui non c’è nulla.



JC: All’alba del 2013, cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


MB: Diverse cose: un’orchestra che sommi Enten Eller e Odwalla, un lavoro molto impegnativo, un nuovo solo da rappresentarsi in duo con una danzatrice, un nuovo cd di Odwalla con dvd del festival di Ankara, un duo con Markus Stockhausen e altro se il tempo che ci rimane basterà.