Blue from Heaven, il nuovo viaggio musicale di Pierluigi Balducci

Foto: La copertina del disco










Blue from Heaven, il nuovo viaggio musicale di Pierluigi Balducci.


Blue from Heaven continua a girare nel lettore, imperterrito e senza sosta. Possiede un qualcosa che te lo rende instancabile all’ascolto, un muzak piacevole, melodioso, cantabile e disincantato. C’è gioia, c’è sogno, c’è libertà in questa musica: una sorta di tappeto volante che ti prende e ti porta via facendoti viaggiare nei cieli costruiti dalla penna di Balducci e raccontati dai fiati di Paul McCandless e dal piano di John Taylor. Le percussioni di Michele Rabbia sono invece lì a ricordarti che c’è un cuore che pulsa, che sostiene un corpo temprato dalle note perfette di un disco bello ed equilibrato.



Jazz Convention: Facciamo il punto sulla tua produzione discografica come leader.


Pierluigi Balducci: Blue from Heaven è il mio sesto cd, ed è stato prodotto e pubblicato dalla casa discografica Dodicilune. In precedenza, ho pubblicato tre album per la Splasc(h) e altri due per la Dodicilune. Oggi, a circa tredici anni dal mio esordio da leader, credo si tratti di sei istantanee relative a momenti differenti della mia attività, sei fotogrammi di un percorso di formazione, ma soprattutto sei tappe di un itinerario personale verso una maggiore consapevolezza di me. Rappresentano come sono divenuto quel che sono ora. Niebla risale credo al 2000, e a quell’epoca il mio quartetto includeva Roberto Ottaviano, Lutte Berg e Massimo Carrano. Il peso delle nuvole è del 2003 (Ottaviano, Ernst Reijseger, Mirko Signorile, Vincenzo Lanzo); Rouge! è del 2005 e coincide con una grossa “rottura” o “strappo” rispetto al passato: in formazione Luciano Biondini (fisarmonica), Leo Gadaleta (violino), Antonio Tosques (chitarra), lo stesso Reijseger e Giuseppe Berlen (batteria). Tosques e Biondini hanno continuato ad essere miei compagni di viaggio anche nelle produzioni Dodicilune, vale a dire sia in “Leggero – live in Bari (2006) che in ‘Stupor Mundi’ (2008), disco nel quale ho coinvolto un eccezionale quartetto d’archi grazie all’ausilio della violinista/cantante Luisiana Lorusso. Oltre a questi sei dischi, voglio ricordare due lavori realizzati in qualità di co-leader: D’Impulso’, inciso nel 2011 dalla formazione Nuevo Tango Ensamble, con il bandoneonista Gianni Iorio e il pianista Pasquale Stafano, e Cherry Dance’, registrato in trio con Marta Raviglia e Maurizio Brunod.



JC: Come nasce Blue from Heaven? Quanto tempo c’è voluto per mettere in piedi il progetto?.


PB: Questo disco nasce dal desiderio di ritornare ad una formazione più consueta, più usuale nell’ambito jazzistico; la presenza di batteria, sax soprano e piano danno al quartetto una connotazione più canonica rispetto alle mie precedenti formazioni, che erano più cameristiche, spesso prive di batteria e caratterizzate da strumenti poco frequenti nel jazz, quali la fisarmonica e il violino. Nello stesso tempo era mio desiderio proseguire, all’insegna della continuità, col mio consueto approccio compositivo, che da sempre privilegia un equilibrio più europeo tra scrittura e improvvisazione, e un primato di melodia e armonia rispetto alla sfera ritmica; anche per Blue from Heaven ho pensato a composizioni di ampio respiro nelle quali gli spazi scritti e/o arrangiati e le sezioni improvvisate abbiano pari dignità e si asservano entrambe al primato della Composizione. Sì, in Blue from Heaven ho avuto modo di applicare ad un organico molto più “tradizionale” ciò che avevo sperimentato a lungo su organici “atipici”. E sono soddisfatto del risultato. Risultato che non sarebbe ovviamente mai arrivato se non avessi avuto il supporto, concreto e morale, della Dodicilune in primis e del progetto Puglia Sounds che ha contribuito in parte alla promozione del cd.



JC: Raccontaci com’è nata la collaborazione con due mostri sacri del jazz mondiale come Paul Mccandless e John Taylor.


PB: Per realizzare Blue from Heaven, ho voluto coinvolgere nel quartetto due musicisti che hanno avuto una grande influenza sulla mia formazione, due musicisti che considero idealmente miei “maestri”. Il fatto che la cosa sia andata in porto e che tra pochi mesi porterò la stessa formazione in concerto, costituisce per me un’immensa gratificazione. Paul McCandless (storico co-leader degli Oregon, gruppo che ho “divorato” da giovane), ha un approccio all’improvvisazione molto simile al mio, un’eleganza timbrica come pochi, una cantabilità che nasce dalla sua grande “consapevolezza” armonica. Lo sento davvero come un padre, musicalmente parlando. Inoltre, suonando l’oboe in alcuni brani, conferisce al lavoro una connotazione timbrica vicina al mondo della musica eurocolta, cosa che a me è davvero molto congeniale e vicina (chi mi segue, sa bene quanto la tradizione classica sia viva e presente in me). Ho contattato Paul inviandogli Stupor Mundi, il mio disco del 2008: lui è rimasto affascinato dal lavoro e non ha esitato a rispondere entusiasticamente alla mia proposta. Di John Taylor è superfluo ribadire che è considerato uno dei maestri indiscussi del piano jazz in Europa, un gigante di cui è quasi superfluo parlare. La sensibilità con cui si è avvicinato alle mie composizioni è stata per me commovente. Avevo incontrato e conosciuto John in occasione di un festival in Calabria, nel quale io avevo tenuto una breve performance in basso solo poco prima della sua in piano solo. Di fronte alle sue attestazioni di stima e ai suoi complimenti sinceri, non ho esitato a chiedergli se volesse collaborare al mio nuovo progetto. Così, da un evento casuale, è nato un nuovo capitolo della mia vita.



JC: Alle percussioni c’è Michele Rabbia e tu suoni solo il basso elettrico…


PB: Michele Rabbia riunisce in sè un musicista e una persona meravigliosi. Nel quartetto interpreta un ruolo certamente più tradizionale rispetto a quello che svolge in duo con Stefano Battaglia (col quale si cimenta con l’improvvisazione nel senso più “radicale” e vicino alla creazione ex novo): in Blue from Heaven suona essenzialmente la batteria, con il suo gran bel “tiro”, e con una “spiritualità” tutta sua. Talvolta, in particolar modo nel brano che si chiama The sky over sky, suona le percussioni. Circa la mia scelta del “solo” basso elettrico, non dovrebbe sorprendere: il basso elettrico è il mio strumento, quello di tutti i miei dischi da leader o co-leader. Certo, ho dei trascorsi da contrabbassista; al contrabbasso ho all’attivo la registrazione di due dischi, quello di esordio di Antonio Tosques, con Robert Bonisolo e Mimmo Campanale, e quello di esordio del pianista barese Onofrio Paciulli (anche questo con Robert Bonisolo, ma con Mauro Beggio alla batteria). Ma, da perfezionista quale sono, ho ormai abbandonato il contrabbasso, che sapevo non essere “mio” come il basso e col quale non riesco ad esprimermi nello stesso modo.



JC: Le composizioni sono tutte scritte da te, tranne Unrequited e Our Spanish Love Song. Ci puoi raccontare la genesi dei pezzi?


PB: I brani sono nati tutti nel periodo che va dal momento in cui Gabriele Rampino mi ha confermato le sue intenzioni di produrre il disco fino a qualche giorno prima di entrare in studio. Ho iniziato a scrivere nell’ottobre del 2011 e ho proseguito fino al mese di aprile 2012. Nello stesso mese, eravamo negli studi Sorriso di Bari pronti per registrare. A mano a mano che completavo il lavoro di composizione, mi rendevo conto che la musica, con il quartetto assemblato, avrebbe avuto una cifra molto visionaria ed evocativa. La caratteristica di far chiudere gli occhi all’ascoltatore e di consentirgli di andare “altrove” con la mente, di sognare, di fargli vivere vite mai vissute e di trasferirlo in mondi visionari, lontani dal “qui” e “ora”, è una delle tante funzioni della musica. C’è musica che fa godere, che fa ballare o muoversi, e c’è musica che ha appunto questa “romantica” funzione. Per questo ho scelto come titolo quello di una composizione, Blue from Heaven, che potesse esprimere meglio questa caratteristica.



JC: Parlaci della casa discografica?


PB: La casa discografica, la Dodicilune, è ormai un punto di riferimento del jazz nazionale e mi ritengo davvero fortunato ad essere un loro artista: sia il produttore Gabriele Rampino che il label manager Maurizio Bizzochetti sono persone molto aperte quanto a concezione del fare musica e del fare jazz. Grandi conoscitori della tradizione, sono altrettanto aperti all’innovazione e alla deviazione dalla norma, senza le quali la musica sarebbe rimasta ferma alla monodia, o al jazz di New Orleans. Mi hanno sempre dato carta bianca e pieno sostegno morale e materiale nel mio lavoro. I miei lavori, che certo non possono essere catalogati nell’ambito del mainstream o nel jazz newyorkese, non potevano trovare un’etichetta più in sintonia. Insomma, a un musicista pugliese un’etichetta pugliese, per un pubblico, grazie a Dio, sempre più vasto.



JC: Hai arrangiato le musiche di My Waits, il disco di Serena Spedicato…


PB: Anche My Waits, il songbook di Tom Waits, è una produzione Dodicilune. Nasce anzi proprio da un’idea di Gabriele Rampino, che ha affidato alla bravissima Serena Spedicato il compito di interpretare una parte del repertorio di Waits degli anni ’70 e ’80. Serena ha fatto un lavoro eccelso, reinterpretando in modo personale, convincente e funzionale i brani. La stessa Dodicilune ha affidato a me il compito, altrettanto arduo, di decontestualizzare il songbook del poeta californiano, donandogli un’interpretazione differente. Io ho optato per una soluzione che alcuni filosofi definirebbero “meridiana”, una reinterpretazione di Waits dal punto di vista di un “sud” orgoglioso delle sue risorse culturali, un Waits dal volto fortemente italiano, latino, passionale. In questo sforzo, la presenza di Gianni Iorio, Antonio Tosques e, alla batteria, di Pierluigi Villani, coi quali collaboro da anni intensamente, mi è stata di grandissimo aiuto.