Foto: La copertina del disco
Hope, il nuovo progetto musicale di Giovanni Scasciamacchia.
Giovanni Scasciamacchia è un batterista schivo, che alle parole preferisce le note e il drumming della batteria. Dialogare, per lui, vuol dire comunicare attraverso la musica. Jazzista autodidatta, ha realizzato da leader nove dischi avendo come partner musicisti italiani di profilo internazionale quali Giovanni Amato, Giulio Martino, Dado Moroni, Roberto Tarenzi, Fabrizio Bosso, Marco Panascia, Alfonso Deidda, Dario Deidda, Tommaso Scannapieco, Aldo Vigorito, Jerry Popolo, Michele Di Martino, Ettore Carucci, Alfredo Di Martino e Rosario Giuliani. Un parterre di musicisti sopraffini guidati da un batterista che oltre ad essere leader è anche un compositore. Il suo ultimo disco per la label Abeat s’intitola Hope. È un lavoro in trio, supportato dalla brillante presenza di Fabrizio Bosso alla tromba. Al contrabbasso c’è il bravo e sicuro Aldo Vigorito e al pianoforte il talentuoso Roberto Tarenzi. Hope è un disco brillante, piacevole ma non accomodante, pieno di energia, calore e sensibilità. “Swinga” molto bene e attrae per la sua vena melodica. Contiene nove brani di cui sette scritti dal leader e due standard del calibro di Body and Soul e In Walked Bud di Monk. Il jazz suonato oscilla dal bop al modale a un mainstream ricercato e carico di sonorità mediterranee. In occasione dell’uscita del disco abbiamo chiesto a Giovanni Scasciamacchia di raccontarci il suo jazz e Hope.
Jazz Convention: Parlaci di te, com’è nata la passione per la batteria?
Giovanni Scasciamacchia: I miei genitori sono soliti raccontare che fin da piccolo suonavo, o battevo, con le mani sulle sedie. In famiglia suonavano tutti, in particolare la fisarmonica. Mio padre voleva che imparassi il sassofono e mi mandò a lezione per tre giorni, ma io avevo già un obiettivo preciso: la batteria. Mio fratello suonava la fisarmonica ed io lo seguivo andando alle prove da mio zio e mio cugino. Quest’ultimo m’insegnò alcuni tempi come il liscio, il pop e il rock. A casa facevo gli esercizi battendo le mani sulle gambe. Al mio dodicesimo compleanno mio padre mi regalò la batteria e in poco tempo imparai alcuni ritmi
JC: Quando hai capito che saresti diventato un musicista professionista?
GS: Per alcuni anni ho suonato ai matrimoni con mio fratello, i miei parenti, e nei club con un gruppo di amici facendo musica inedita, leggera, pop, rock, funky e blues. Compravo sempre dischi, che erano il mio studio, e per caso ascoltai il jazz. Me ne innamorai subito! Da lì cominciai a comprare solo dischi di jazz e ascoltandoli attentamente realizzai di aver trovato la mia dimensione. Dopo la scomparsa di mio fratello ho capito che dovevo coltivare la mia grande passione ed ho messo tutto il resto da parte dedicandomi esclusivamente alla musica. Ho iniziato a scrivere la mia musica e subito ho inciso il primo disco, Jazz for Louis. Da quel momento è venuto tutto naturale: comporre altri brani e andare avanti con i diversi progetti in attivo
JC: Quali sono stati i tuoi maestri?
GS: Mi piacciono tutti i grandi batteristi come Art Blakey, Elvin Jones, Philly, Jo Jones, Max Roach e gli attuali Brian Blade, Jeff Tain Watts, Bill Stewart e via dicendo. Mentre ci sono una serie di pianisti che mi ispirano per il loro lavoro come, tra gli altri, Bill Evans, Herbie Hancock, Mulgrew Miller.
JC: Hai all’attivo numerose collaborazioni…
GS: Ho l’onore di collaborare con musicisti di altissimo livello, ed io, essendo autodidatta, non mi sento mai alla loro altezza; però quando mi trovo con questi mostri sacri, chiudo gli occhi e lascio fare alla musica.
JC: Il tuo ultimo disco si chiama Hope, com’è nato? Perché questo titolo? La scelta dei musicisti? La casa discografica?
GS: Hope si avvale della partecipazione straordinaria di Fabrizio Bosso alla tromba. Fabrizio mi ha sostenuto fin dall’inizio chiamando subito Mario Caccia di “Abeat Records” e cogliendone in pieno i suoi gusti. Hope vuole essere un messaggio di speranza in un mondo migliore. Questo progetto, grazie alla raffinatezza di Aldo Vigorito, alla magia di Roberto Tarenzi e all’eleganza di Fabrizio Bosso, esprime pienamente il fine che mi ero prefissato in fase di realizzazione del disco
JC: Come si colloca Giovanni Scasciamacchia nel panorama jazz italiano? come vede il futuro di questo genere musicale in Italia?
GS: Ho notato che in Italia si va alla ricerca della moda, del business. Quando compongo, non penso a quello che può piacere alla gente, ma semplicemente alla musica. Sono solito dire che la musica è come Dio, la senti ma non la vedi. Il più delle volte sottovalutiamo la semplicità. Vogliamo suonare in modo difficile solo perché facciamo jazz e abbiamo sempre gli americani come punto di riferimento, sottovalutando la nostra terra che è ricca di melodie sublimi (si ascolti il suo disco My Roots – n.d.r). Non smetterò mai di amare i grandi del jazz, ma credo che in Italia, se ci deve essere una continuità in questo modo di fare musica, è opportuno che siamo più autentici, più noi stessi, altrimenti il jazz sarà sempre definito un “genere” che non ci apparterrà mai.
JC: I tuoi progetti futuri?
GS: Il nuovo progetto è un disco con l’etichetta barese Fo(u)r. Suono con Giovanni Amato, Gaetano Partipilo, Pietro Lussu e Giuseppe Bassi. È un lavoro molto colorato! Il cd comprende due brani miei, quattro di Amato, uno di Jed Levy, che l’ha dedicato a Giuseppe Bassi, uno di Partipilo, e uno standard.