Foto: da internet
Slideshow. Enrico Fazio.
Jazz Convention: Così, a bruciapelo chi è Enrico Fazio?
Enrico Fazio: Difficile… limitandomi al mio lavoro, anche se suona male, direi un musicista dilettante; nel senso che, per fortuna e spero un po’ di merito, in 40 anni di attività ho sempre potuto fare quello che mi piaceva, e diversamente avrei scelto di fare altro.
JC: E – quasi bruciapelo – puoi parlarci del tuo nuovo lavoro discografico Ore blu con Cecco Aroni Vigone e Fiorenzo Sordini?
EF: Ore blu segna un momento molto particolare della mia esperienza musicale: nel 2007, per una somma di motivi, primo fra tutti la nascita di mio figlio Simone, ho deciso di sospendere la mia attività pratica (concerti e registrazioni) per dedicarmi il più possibile alla famiglia, alla composizione, e al Conservatorio (dove insegno appunto composizione e arrangiamento jazz). Questo periodo, inizialmente pensato come una sorta di anno sabbatico si è poi protratto nel tempo (in questi sei anni ho partecipato alla sonorizzazione di un film muto per Settembre Musica a Torino, più un paio di altre manifestazioni). Il lavoro con Francesco mi ha costretto a riprendere in mano lo strumento e a riconfrontarmi con la musica praticata.
JC: Cosa significa?
EF: Che a Ore blu sono seguiti il nuovo CD di prossima uscita dell’Art Studio (che vede Francesco sostituire Carlo Actis Dato, ed il ritorno di Irene Robbins al piano e alla voce) e la registrazione del mio nuovo lavoro (prima parte di quella che dovrebbe essere una trilogia). Ma tornando a Francesco, questo è un progetto che da molti anni teniamo nel cassetto: ricordo che da parte mia proposi come modello di riferimento il trio di Paul Motian (Dance, 1977! con David Izenzon al basso e Charles Brackeen al sax), che trovo tuttora un disco fantastico ed attualissimo. Con Francesco c’è un legame di amicizia e di complicità musicale molto profondo, è un musicista capace di creare belle linee senza diventare scontato; ha una maturità musicale che gli permette di usare la tecnica in funzione espressiva e comunicativa, e non fine a se stessa. Il gruppo è completato da Fiorenzo Sordini, il mio batterista d’elezione, anche lui grande amico e compagno di musica dal 1974. Per quanto mi riguarda, come dicevo questo lavoro è stato un modo di confrontarmi in maniera diversa con lo strumento, giocoforza limitando i momenti virtuosistici ma cercando di puntare all’essenza del suono.
JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?
EF: La mia non era una famiglia musicale e l’interesse per la musica è nato solo alle scuole medie, quando con Claudio Lodati cominciammo a strimpellare musica rock, la prima chitarra comprata andando a scaricare camion per una ditta di trasporti. I primi ricordi che ho da spettatore sono quelli dei grandi concerti rock del tempo, Jethro Tull, Gentle Giant, King Krimson, Van der Graaf, eccetera; qualche anno dopo il grande concerto di Mingus a Umbria Jazz ed uno altrettanto entusiasmante dell’Art Ensemble a Parigi. Come musicista, il primo concerto importante è a metà degli anni Settanta (appena maggiorenne) al Conservatorio di Torino con Art Studio, assieme al Trio Idea di Gaetano Liguori.
JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista?
EF: È un mezzo per comunicare, io non sono mai stato troppo bravo con le parole. Ai tempi del liceo ho cominciato a sviluppare una profonda curiosità per la musica in tutti i suoi aspetti e meccanismi e, di conseguenza, mi sono diplomato in contrabbasso e successivamente laureato in discipline musicali. Il motivo per cui poi ho fatto il musicista di jazz militante e non altra attività legata alla musica probabilmente è da cercare nella situazione culturale dei complicati anni Settanta – e Ottanta… Un periodo difficile, ma culturalmente molto stimolante: c’erano molte occasioni, molto entusiasmo e una grande coesione, a differenza dell’individualismo spinto che mi sembra si sia poi affermato in seguito. Questo ci ha permesso come Art Studio di fare subito tante esperienze importanti: gruppo fisso d’apertura allo Swing Club di Torino varie sere la settimana, con l’opportunità di ascoltare grandi musicisti da vicino e di fare esperienze decisive (suonare con Urbani, D’Andrea, Fasoli ecc); tournée come gruppo di spalla a Cecil Taylor; concerti a Parigi per Radio France e Galleria d’Arte Moderna.
JC: Se non erro in quel periodo sei anche contattato per suonare nel gruppo italiano di Don Cherry?
EF: Sì, ma ho dovuto rinunciare per l’imminente inizio del servizio civile. La situazione culturale però ci ha permesso nel 1977 di creare attorno all’Art Studio il Centro Musica Creativa, di cui sono stato presidente in seguito per una decina d’anni. Questa cooperativa è stata una delle prime nate in Italia, e con essa abbiamo creato una rete di scambio con esperienze analoghe fatte nel resto d’Europa: innumerevoli sono state le rassegne e i festival con musicisti come Lacy, Tippet, Moholo, Dean, Honsinger, ICP, Bennink ecc. La cooperativa è stata anche un’importante etichetta discografica, per anni punto di riferimento della musica di ricerca in Italia.
JC: Mi sveli adesso il motivo precipuo per cui diventi un musicista jazz?
EF: Uno zio di Claudio Lodati, buon dilettante di chitarra jazz ci ha avvicinato al genere, e da lì è partito un percorso collettivo con l’incontro con Fiorenzo Sordini e Carlo Actis Dato.
JC: E perché il percorso è andato avanti?
EF: Probabilmente perché era una musica che mi sembrava complessa, con tante cose da scoprire ma nello stesso tempo sinonimo di libertà e fantasia, e perché eravamo un gruppo di buoni amici.
JC: Come mai proprio il contrabbasso?
EF: Dopo un avvio chitarristico sono passato al basso per necessità di gruppo, e da lì al contrabbasso la scelta è stata obbligata: ora ho comprato un violoncello, mi piacerebbe avere il tempo di studiarlo.
JC: Ha ancora un significato oggi la parola jazz?
EF: Non so, forse per un certo filone, diciamo mainstream, la parola jazz può ancora essere uno spartiacque tra cosa è e cosa non è: da un punto di vista storico è giusto che l’America rivendichi il jazz come la sua musica, come l’Italia fa con l’opera o la Germania con il sinfonismo, meno credibile mi sembra certo jazz di riporto europeo. Io credo che questa parola sia oggi un grande contenitore dove si muovono realtà molto differenti e talvolta opposte, ma con alcuni caratteri comuni. Siamo in un epoca di contaminazioni e il jazz per sua storia e cultura è sempre stato un fenomeno che ha interagito con l’ambiente sociale, culturale, politico che l’ha accompagnato: se si dimentica questo probabilmente si perde la vera essenza del jazz.
JC: Ma cos’è per te il jazz?
EF: Come dicevo, è una musica che interagisce col momento storico, se non lo fa è accademia, a volte di grande levatura artistica, ma sempre accademia. Il jazz è una musica curiosa, che cerca strade diverse senza paura di sbagliare, che non si adagia su percorsi rassicuranti. Che ingloba le culture ormai non più solo degli americani (o afroamericani): io sono italiano, ho una tradizione diversa, mi piace portarla in questo contesto e non copiare semplicemente dei modelli che mi sono estranei. Come teorizzava Gaslini ormai parecchi anni fa, bisognerebbe parlare di “musica totale”.
JC: Ma come ti consideri, alla fine? un jazzista, un compositore, un performer o altro?
EF: Mi immagino un po’ narratore, un po’ artigiano, un po’ architetto del suono. In questo momento l’aspetto compositivo è certamente predominante, ma è stato ben presente fin dall’inizio, crescendo accanto al ruolo di esecutore. Nell’Anno Europeo della Musica, grazie a una borsa di studio della Fondazione Cini ebbi la fortuna di seguire lezioni di grandi musicisti (un nome per tutti: Luigi Nono); poi il concorso di composizione legato al Festival Internazionale di Sant’Anna Arresi, vinto con un brano dedicato a Mingus, il lavoro orchestrale Lieto fine su Kurt Weill ed il progetto multimediale Favola, dove incontro l’elettronica, tutte tappe di un cammino parallelo tra musica scritta e musica suonata. Da quando ho cominciato a realizzare progetti a mio nome ho lavorato in una direzione precisa, inizialmente in una maniera intuitiva che progressivamente si è chiarita: cercare delle convergenze tra la scrittura e l’improvvisazione, creare una sorta di osmosi tra i due elementi possibilmente esplorando zone nuove. Penso al brano come a un organismo vivente che cresce e lascio crescere, spero armoniosamente, fin che ne ha voglia: se dovessi dare dei meriti alla mia musica, direi il senso architettonico della forma, l’equilibrio e l’omogeneità nello sviluppo del racconto.
JC: I tuoi lavori sono generalmente molto densi…
EF: Sì, densi di idee e di note, scritti e arrangiati, ma per me la scrittura deve essere una specie di strada per i soli (a volte un’autostrada, altre una carrabile), in cui io lascio molta libertà di interpretazione ai musicisti ma contemporaneamente li costringo a confrontarsi con situazioni atipiche, inedite. Perciò dopo queste orge di scrittura (dove emerge la discendenza dal barocco siciliano) passano alcuni anni prima che produca un nuovo lavoro, spesso inframmezzando il tempo con progetti di quasi assoluta improvvisazione, come Compagni di strada, il duo che ho realizzato alcuni anni fa col multistrumentista russo Sergej Letov.
JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?
EF: I viaggi, reali, musicali e umani verso luoghi sconosciuti che hanno accompagnato la mia storia.
JC: Come pensi che si evolverà il jazz del presente e il jazz del futuro?
EF: In un mondo che cambia a ritmi vertiginosi rispetto al passato, reagirà sempre più velocemente agli stimoli culturali e sociali. Non so in che direzione, immagino inglobando contaminazioni, multicultura e tecnologia. È importante che si studi il passato, ma che si suoni il presente e si immagini il futuro.
JC: Tra i molti dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?
EF: Ogni scarrafone è bello a mamma sua… c’è il primo, c’è l’ultimo, quello che ha avuto successo e quello più misconosciuto. Se devo fare un nome direi Zapping!, il mio primo disco con l’inglese Leo Records, pubblicato nel 2003, che ha avuto grandi riscontri internazionali ed è andato rapidamente esaurito. È un disco che arriva dopo molti anni dal precedente, un progetto nato dalla suggestione di una mostra vista a Tokyo sul riciclaggio degli scarti; un meccanismo che ho immaginato di applicare alla musica, utilizzando frammenti ritmici, armonici e melodici di centinaia di brani, senza distinzione di epoca, cultura e genere, con un approccio da “telecomando televisivo”, appunto da zapping. La scommessa, dare unità e senso compiuto ad un materiale così frammentato, come avviene per gli oggetti riciclati.
JC: E tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?
EF: Sono onnivoro, dovrei avere un container! Tralascio i classici di qualsiasi genere e dico solo qualche nome di musicisti che oggi trovo “vitali” in campo jazzistico: Henry Threadgill, Django Bates, Matthew Herbert; recentemente ho sentito cose molto interessanti di Steve Lehman, Andrew D’Angelo, Lucien Dubuis, Lars Danielsson, Avishai Cohen, Hiromi Uehara; tra le orchestre, la Andromeda Mega Express, la JBB di Graz, che purtroppo ha recentemente perso uno dei suoi pilastri, la solista di theremin Barbara Buchholz, scomparsa prematuramente, come il grande pianista Esbjorn Svensson. E ancora Chris Potter, Bojan Z.
JC: Quali sono stati i tuoi maestri nel contrabbasso, nella musica, nella cultura, nella vita?
EF: Tante persone mi hanno insegnato tante cose, e le vorrei ringraziare tutte. Oggi direi gente come Gino Strada. Se penso alla musica, andrei a 40 anni fa: Emilio Benzi, contrabbassista dei Solisti Veneti e mio insegnante di strumento classico; Massimo Mila, che ho avuto la fortuna di avere come insegnante in università; Natale Gallini, collezionista musicale, creatore del Museo degli Strumenti di Milano, che frequentai per la mia tesi e che a 93 anni, cieco e infermo mi ha insegnato che si è giovani finché c’è curiosità, passione e voglia di conoscere e imparare. Pensando al contrabbasso jazz, dovrei fare un lungo elenco: dico Mingus, che amo molto e che mi ha portato fortuna, e tre H: Holland, Hopkins e Haden.
JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?
EF: Mio figlio che canta nel mio nuovo progetto. Riferendomi alla carriera, ho tanti bellissimi ricordi, da piccoli momenti a grandi emozioni: dal concerto al Mar del Jazz Festival di Buenos Aires col mio gruppo italoargentino, al disco dell’amico Giancarlo Locatelli con Steve Lacy (con lui c’era anche in programma un doppio cd per i 30 anni di attività di Art Studio, uno col sassofonista aggiunto al gruppo, uno di Lacy in solo che improvvisava sui nostri temi; progetto mai realizzato per la sua scomparsa); dal sodalizio duraturo con molti improvvisatori inglesi (Tippet, Dean, Beckett), all’allestimento su commissione del progetto Favola per il Festival di Noci; e l’incontro con Sam Rivers in un club di Tokyo, gli apprezzamenti di Willem Breuker per il mio progetto Gracias!, l’incontro con Sue Mingus a New York, le decennali esperienze con Art Studio e con il Quartetto di Actis Dato, l’elenco si farebbe troppo lungo.
JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?
EF: In primo luogo quelli con cui c’è un grande rapporto umano e di amicizia, i compagni di sempre. Come dicevo all’inizio, suono per diletto, e se non c’è l’atmosfera giusta preferisco fare altro: non sono mai andato a cercare la star per gonfiare la mia immagine, per poterlo scrivere in biografia. Cerco quelli che fanno le cose con passione e curiosità, e quelli che hanno voglia di insegnarmi qualcosa.
JC: Come vedi la situazione della musica oggi in Italia?
EF: Credo che la situazione sia sotto gli occhi di tutti; la cultura in Italia è massacrata e rischiamo di dissipare il più grande patrimonio che abbiamo. Ciò è consueto che accada in periodi di crisi, ma l’accanimento distruttivo attuale va oltre ogni logica.
JC: E più in particolare la situazione dei Conservatori di musica?
EF: Come in molti ambiti culturali, oggi il funzionamento delle cose passa attraverso la passione dei singoli, per cui ogni realtà fa storia a se. Ovviamente qui si parla di barcamenarsi tra mille difficoltà, il più delle volte in situazioni di precariato, cercando di fare il possibile per motivare i ragazzi e tralasciando le grandi questioni di fondo che dovrebbero essere alla base di un insegnamento di qualità (disponibilità di strumenti didattici adeguati, cosa è e come si deve insegnare il jazz, il rapporto con la secolare istruzione musicale classica, tradizione e innovazione ecc). Nello specifico, da alcuni anni coordino il grande Dipartimento di Jazz del Conservatorio di Alessandria (due cattedre ministeriali e sette insegnanti a contratto), cercando a piccoli passi di puntellare quello che la politica sta ostinatamente smantellando.
JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?
EF: Per il momento non ho in programma un ritorno all’attività concertistica. Ho registrato una session che, come dicevo, è la prima parte di un progetto più articolato, elaborato in questi sei anni di ritiro dalla scena. Abbiamo registrato in diretta in un giorno e mezzo senza prove precedenti nel mio home-studio, con mia moglie, che è un fisico acustico, a gestire i suoni. Questo è stato possibile grazie all’apporto di musicisti splendidi, che devo ringraziare e ricordare: Luca Campioni al violino, Alberto Mandarini alla tromba, Gianpiero Malfatto al trombone, Francesco Aroni Vigone ai sax, Gianni Virone ai sax e flauto, Adalberto Ferrari ai clarinetti, Fiorenzo Sordini alla batteria. Il disco uscirà quest’anno, penso per Leo Records . Ho in progetto un nuovo lavoro tratto da un testo teatrale, una serie di dieci duetti che coinvolgeranno alcuni musicisti dell’ottetto più alcuni ospiti nell’elaborazione di un unico tema, e sto preparando con Malfatto la sonorizzazione di una raccolta di poesie di mia moglie, Fosca Massucco.