Autoproduzione – 2012
John Tchicai: sax tenore, direzione
Marta Raviglia: voce
Alberto Popolla: clarino basso
Pasquale Innarella: sax tenore e soprano
Giacomo Ancillotto: chitarra
Henry Cook: sax alto, flauto, washint
Carlo Cattano: sax soprano, sax baritono
Ivan Cammarata: tromba
Giorgio Distante: tromba
Angelo Olivieri: tromba
Tony Cattano: trombone
Francesco Cascio: vibrafono
Roberto Raciti: contrabbasso
Claudio Sbrolli: batteria
Storico sideman delle sessions di Coltrane, Ayler e Shepp, il sassofonista John Tchicai è stato del movimento free convinto attore di cui abbiamo appena registrato la scomparsa – per la cronaca e fatalità, ad appena pochi giorni di distanza dal grande David S. Ware.
Segna più punti d’interesse, dunque, registrarne la fase di piena maturità nel porsi alla testa di un collettivo particolarmente aperto quale Franco Ferguson, che ha già alternato nelle sue fila on stage circa 200 solisti, operando una strategia di svolta rispetto al sistema concertistico e produttivo nella proposta degli “improring” – “concerti che uniscono sul palco musicisti d’estrazione diversa per dar vita a delle sessions d’improvvisazione totale, ben oltre gli stili e i generi, senza barriere e steccati. Happenings che cercano di portare sul palco il maggior numero di musicisti possibili, nello spirito di un concerto più che di una jam session”.
Palpabile peraltro la forma esplicitata dalla line-up in campo, che attivamente metabolizza materiali della penna del leader on-demand (e in due casi della consorte Margreit Tchicai Naber): le pompose, cupe laboriosità bandistiche d’apertura (Don’t loose Your way, riprese in Andy was here) fungono da vigoroso plateau e pongono in bel rilievo i solismi della chitarra e del tenore, tracciando via via le forme favorite del collettivo che, alla maniera di certi equivalenti letterari, si esprime tramite la voce alterna dei suoi animatori “La vita, la formazione umana delle persone è fatta di tutto e la sensibilità che si forma nel tempo diventa la musica che ogni musicista crea. Io non sono musicista: sono un architetto che fa dell’interazione delle arti il suo credo più profondo. Impiegarsi in ogni dove con curiosità e semplicità. Ho voluto creare in Ferguson un’immagine unica, fuori da qualsiasi stereotipo del jazz, perché vorrei che Franco Ferguson non fosse un progetto elitario bensì generoso e democratico sempre senza perdere una raffinatezza graffiante di fondo”.
Palesemente non immune alle fascinazioni del restyling e del riciclo (delle forme classiche) e del contrabbando (delle tattiche free), l’ensemble pratica una strutturazione aperta in cui si declina ampia alternanza tra ariosità (Colored Air, Big and small Tree) e più fitte concitazioni, infliggendo variegate inquietudini alle fondative morfologie dell’orchestra di scuola evansiana, recuperando coloristicamente rotondità stilistiche che risalgono la corrente fino alle non defunte forme dei Seventies, dinamizzando il “tutti” in varie guise per dar voce alle duttilità sensibili dei singoli, fissando l’acceso e cinguettante dialogo dei sax (Cool maxi copy), che si fa incruenta invettiva, come occasione per seguire l’interfaccia dinamica tra l’anziano maestro e i sodali dell’attuale generazione.
Ne esita un’intensa esperienza apolide e aperta, come ben esemplificato nell’esplosivo, polimorfo finale Dead or alive?, che da un canto registra con implicazioni di storicità uno dei più tardivi passaggi del maestro danese, dall’altro palesa l’ampio potenziale di una promettente formazione di trasversali strategie.