Today, il futuro di Franco D’Andrea.

Foto: Andrea Buccella










Today, il futuro di Franco D’Andrea.


Se volessimo paragonare il musicista Franco D’Andrea a uno scrittore diremmo che il suo corrispettivo in letteratura è il grande romanziere statunitense Don DeLillo. Come lo scrittore americano, D’Andrea fa esplodere la musica in tanti piccoli ed episodici frammenti di realtà che poi ricompone e riporta nel tema principale. Siamo davanti a un nuovo capitolo nella nutrita carriera discografica di Franco D’Andrea, una prova senza rete per parafrasare un altro illustre jazzista come Wayne Shorter. Today, l’ultimo e intrepido lavoro del maestro meranese, è un disco per piano solo fuori dal comune. Anomalo nel panorama italiano perché richiede coraggio, destrezza, esperienza, spregiudicatezza, eclettismo e inventiva. La paura non è ammessa, né il senso del vuoto, che altro non è per D’Andrea se non uno spazio da riempire di note.



Jazz Convention: Franco D’Andrea, perché un disco di piano solo?


Franco D’Andrea: Gli ultimi dischi che ho fatto sono tutti in gruppo, quartetto, quintetto e sestetto, di cui sono molto contento. Il piano solo però è rimasto abbandonato. L’ultimo che ho fatto prima di questo era il Live a Radio Popolare. Dopo otto anni, finalmente, esce un altro lavoro.



JC: Dunque sembra quasi un fatto fisiologico, oltre che artistico, una necessità…


FDA: Sentivo il bisogno perché, al di là di quando mi viene commissionato, io devo fare certe cose. Era venuto il momento di capire che cosa mi stava frullando nell’inconscio. Ogni tanto bisogna visitarlo e comprendere quali sono le nuove direzioni che si agitano, le nuove idee che stanno venendo fuori, ma di cui ancora non sei sicurissimo. Questo è un disco per certi versi che sta nella linea delle cose che adesso sto facendo: c’è qualcosa della tradizione, c’è molto dell’avanguardia, dell’andare a cercare nuove cose, ma è soprattutto un disco in cui ho voluto sperimentare delle vie diverse, anche rispetto a tutto quello che facevo ultimamente. Per un anno ho portato avanti una serie di registrazioni che faccio quando suono. Poi alcune cose le lascio, altre le butto via. Seleziono per capire come suonano certe improvvisazioni. Sono cose di cui io non ho il controllo completo. Sono sperimentazioni di vario genere.



JC: Avevi già un’idea precisa su quello che avresti suonato?


FDA: Non ho voluto decidere cosa avrei fatto però sapevo che c’erano dei pezzi della tradizione che non avevo mai registrato. Gli altri dovevano essere in fin dei conti dei brani in cui dovevo trovare la forma man mano che andavo avanti. Da solo, ho azzardato a fare delle cose che con il gruppo ancora non mi sento di fare a quei livelli là. Ho usato delle strutture non in maniera didascalica ma libera, aperta, anche con qualche contraddizione interna. Quando ho finito questo disco, ho buttato giù un’ora e mezza di musica lavorando per circa due ore. Questo nella prima tornata. La seconda è stata di un’ora e mezza reale. Quando ho terminato, mi sono trovato con del materiale sovrabbondante. Avevo deciso di fare un singolo e non con troppi minuti. Ho preso dal pianoforte il massimo che mi poteva dare.



JC: Eri di fronte a un bel po’ di materiale…


FDA: E si! A quel punto dovevo selezionare i pezzi. Alcune cose erano talmente nuove che nemmeno io sapevo giudicare.



JC: Sarebbero i nuovi pezzi che sono nel disco, come Mixed n.1, Abstraction n.1, Today?


FDA: Si, sono molti pezzi improvvisati. Altri sono venuti fuori da piccole suite, Savoy Blues, Muskrat Ramble, ma anche Scrapple from the Apple e Giant Steps e poi Undecided, il pezzo di Charlie Shavers. Questo è tutto quello che riguarda la tradizione. Tre episodi su dodici. Gli altri nove sono tutti improvvisati. L’ho chiamato Today, unico titolo che non è dei miei soliti, perché mi sono detto che quel pezzo era un po’ la chiave di lettura di dove stavo andando. Quindi Today e cioè oggi va così! In senso stretto vuol dire lo stesso giorno in cui ho inciso questa cosa.



JC: Come sono nati i nuovi brani?


FDA: I pezzi improvvisati sono stati costruiti tutti in sala di registrazione, sul momento, in piano solo. È una prassi abituale che risale al 2006, anno in cui cominciai a usarla. Da allora è andata sempre così. Mi sono lasciato andare. Ho seguito l’istinto. Purtroppo non ero in grado di dare un giudizio estetico su quello che avevo fatto. Parlo delle nuove composizioni. Avevo il controllo fino a un certo punto.



JC: Una sorta di flusso di coscienza?


FDA: Peggio. Il flusso di coscienza è qualcosa su cui tu vai avanti. Io non lo uso come qualcosa di completamente irrazionale. Per me vuol dire la storia che sto raccontando con pezzi del mosaico pronti. Qui invece non erano pronti. È la prima volta che mi capita una cosa così radicale. Solitamente sono timoroso dei risultati ma questa volta mi sono preparato bene. Ho cominciato da dopo l’uscita di Traditions and Clusters. Mi sono dato dei punti come il senso orchestrale del pianoforte, l’immaginarsi tante cose possibili, anche diverse tra di loro, purchè avessi la possibilità di trovare la chiave giusta e farla funzionare. Ho operato di volta in volta anche con tecniche diverse. Possedevo diciannove creazioni.



JC: A quel punto servivano dei tagli?


FDA: Ne dovevo eliminare un po’. Ciò provato per diverso tempo, ma a un certo punto ho avuto paura di non farcela. Questo spiega il ringraziamento hai musicisti contenuto nel libretto del cd. Mi hanno dato una mano. Il primo di tutti è stato Ayassot e la sua scaletta. È stato velocissimo nell’inventarsene una e prendere delle decisioni in due giorni. Nel frattempo ho sentito anche il pianista Alfonso Santimone. Lui ha partorito sei scalette. Alla fine Ayassot e Santimone avevano due scalette che funzionavano. Ho chiesto consiglio anche a Zeno De Rossi e Aldo Mella perché non sapevo quale delle due scegliere. Entrambi hanno optato per quella di Santimone. Alla fine ho scelto anch’io quest’ultima perché mi sembrava la più pratica, quella più digeribile per un disco difficile, tosto.



JC: I tre pezzi non tuoi come li hai scelti?


FDA: Stavano li tra quelli che non avevo inciso, sicuramente da solo. Ho sempre detto che nella mia vita un giorno avrei inciso Muskrat Ramble di Kid Ory. È un pezzo del jazz tradizionale che ho sempre amato sin da quando ero ragazzino. A tutt’oggi lo considero una pietra miliare. Anche Savoy Blues, sempre di Kid Ory, non è da meno. Lo considero un compositore di prim’ordine. Poi viene Undecided di Charlie Shavers. Il trombettista è stato sempre un mio idolo. Un trombettista molto sottovalutato, invece si tratta di un personaggio di prim’ordine. Questo è un pezzo molto monkiano. L’ho ridotto al minimo, ma ha una sua mobilità. Poi Giant Steps, un piccolo omaggio a Coltrane. È sempre stato un punto di riferimento importante per me, in qualunque momento. È anche una sfida perché è un brano leggermente meccanico. Si sa che non è il più bel pezzo che lui abbia composto, ma ha un meccanismo ingegnoso. Come tale va affrontato. In ultimo Scrapple from the Apple. È uno dei miei preferiti di Parker. Non è troppo fluviale. Ha una sua sintesi. Ho suonato per la prima volta Scrapple from the Apple in un concerto per piano solo al Moody Jazz Cafè di Foggia. In quella situazione volevo suonare Honeysuckle Rose da cui è tratto Scrapple from the Apple, il giro armonico. Mi misi a suonare Honeysuckle Rose, ma poi cominciai a mischiare i due brani, andavo e tornavo. Sono riuscito a trovare una combinazione tra i due e ci ho suonato per un po’ di tempo. Da quel momento ho pensato che erano due pezzi che potevano arrivare da qualche parte. Quando rischi delle cose, ne escono sempre delle altre buone. Il mio controllo su questo materiale è del 70-80%. Non sarei in grado di rifare le stesse cose. È tutto legato al Today.