Stefano Zenni, la seconda edizione del Torino Jazz Festival

Foto: Ferdinando Caretto










Stefano Zenni, la seconda edizione del Torino Jazz Festival.


Jazz Convention: Stefano, vuoi fare un bilancio complessivo della seconda edizione Torino Jazz Festival da poco conclusasi e da te diretta per la prima volta?


Stefano Zenni: Mi sembra che questa edizione del festival sia andata molto bene. Non solo sul piano dei numeri (a volte con colpi d’occhio significativi di folla) ma proprio sul piano del rapporto con la città, con lo sciogliersi della musica e delle persone tra i mille angoli di una città magnifica.



JC: Stefano, pensi che il valore di un festival dipenda al 99,9% dalla direzione artistica, nel senso che a guidare importanti manifestazioni ci vogliano persone super partes e soprattutto illuminate e preparate a 360 gradi? Quindi, anche se la domanda potrebbe apparire pleonastica, ti chiedo: è meglio che a fare i direttori siano critici, studiosi, jazzologi piuttosto che artisti, musicisti, jazzisti (per non parlare di politici e assessori che si piccano di sapere scegliere)?


SZ: Credo che un direttore artistico, almeno su un piano ideale, debba possedere qualità ed esperienze diverse: suonare o aver suonato uno strumento per capire a fondo la musica, possedere una preparazione critica e culturale adeguata per poter pianificare un progetto culturale, avere capacità politiche per gestire in modo diplomatico le tante relazioni con cui costruire un festival, senza contare che è meglio avere anche una esperienza gestionale e organizzativa generale, questioni di budget, legali e via dicendo. È chiaro che questa è una figura ideale, e ognuno di noi possiede queste qualità in proporzioni differenti, che vengono compensate da collaboratori, altri responsabili e così via.



JC: Quanto è importante la location per un festival, dal generale al particolare, dalla scelta di un’intera città a quella di un piccolo caffè per far suonare gli esordienti?


SZ: È fondamentale. Ogni musica ha il suo genius loci, suona “bene” solo in certi posti, dove può far scattare la magia con il pubblico. Un festival quindi deve articolare le proposte anche sulla base dei luoghi e degli ambienti.



JC: Qualcuno, da sempre, in ogni festival, rimprovera la simultaneità degli eventi; ma quel qualcuno conosce male la storia del jazz, se pensiamo che ad esempio nel French Quarter o sulla 52a potevi ripassare appunto la Storia (con la S maiuscola) direttamente passando da un locale all’altro nel giro di poche decine di metri… Giusto?


SZ: Storicamente è giusto. Ma c’è dell’altro: non tutto interessa a tutti. A Torino mentre suonava Roy Paci il Conservatorio si è riempito come un uovo per ascoltare Riccardo Del Fra, mentre altri locali con musica in Via Po erano stracolmi di gente. Evidentemente queste proposte vengono incontro a gusti e bisogni differenti.



JC: Altra questione: la contaminazione dei generi o meglio delle forme. Ma da sempre il jazz è lingua franca, in continua evoluzione! E fin dalle origini non è mai esistito un solo tipo di jazz o un’unica idea di jazz, ma in simultanea tante esperienze anche tra loro molto differenti! Cos’altro puoi aggiungere? O suggerire ai puristi (un po’ stalinisti, a mio avviso)?


SZ: Non esiste un’idea pura di jazz. Non è che esiste un’idea platonica a cui dobbiamo conformarci: l’idea di cosa sia il jazz è cambiata col tempo, con le epoche e i luoghi. Invocare un presunto purismo vuol dire non conoscere la storia e, dal punto di vista di un direttore artistico, farsi sfuggire il senso del presente.



JC: La pluralità delle arti coinvolte trova finalmente nel TJF una progettualità effettiva, seria e coerente, a differenza della carenza di tali proposte o delle iniziative di contorno (spesso futili e pretestuose) di molti festival. Come ti spieghi lo scarso interesse – in altre manifestazioni spesso altisonanti – verso il contributo offerto da musicologi, poeti, romanzieri, fotografi, registi, pittori, videomaker alla causa jazzistica?


SZ: A mio avviso le proposte funzionano se sono integrate in percorsi o legami che stimolano il pubblico a collegare arti, mondi espressivi, linguaggi diversi. Programmare le cose senza coerenza non aiuta a creare interesse. Certo, non bisogna neanche strutturare griglie rigide, ma appunto suggerire percorsi, alludere a possibili collegamenti tra eventi diversi lasciando al pubblico il piacere di riempirli di senso, di arricchirne il valore con riflessioni che sorgono dai cortocircuiti dell’esperienza.