Stormy Weather di Andrew Stone

Foto: la locandina del film










Stormy Weather di Andrew Stone.

Riflessioni attorno a un jazz movie di settant’anni fa.

La recente pubblicazione, per la prima volta in DVD, del lungometraggio Stormy Weather (1934) di Andrew Stone per la Golem Video (collana economica “Cineclub Classico”) consente oggi di riparlare del cosiddetto jazz movie (da alcuni additato quale sottogenere del musical, da altri semplicemente come una delle tante correnti del cinema musicale) e soprattutto riconsiderare storicamente quello che ad esempio l’esperto Scott Turow – nel suo libro Jazz On Film – colloca tra le migliori pellicole film sul jazz. Potrebbe addirittura considerarsi un’opera di propaganda bellica, Stormy Weather, perché il messaggio finale è in fondo aiutare i soldati al fronte a vincere con ogni mezzo (gli Stati Uniti sono nel secondo conflitto mondiale solo da pochissimi mesi), alla pari dello sforzo comune che viene fatto quasi trent’anni prima con la Grande Guerra. E il messaggio qui è rivolto esclusivamente ai neri trattandosi di un film all’epoca chiamato “all negroes movie”, ossia interpretato da sola gente di colore e destinato al mercato afroamericano, come accade già da un ventennio con i race records in ambito discografico.


Del resto la trama di Stormy Weather, sia pur sviluppata con lunghi flashback, inizia con i festeggiamenti per la vittoria degli yankees e termina con uno spettacolo di beneficenza per sostenere le truppe a stelle e strisce. Dunque nella fattoria dove ormai vive da solo, Bill, circondato dai bimbi del vicinato, racconta di quando si trova, con i propri commilitoni, nel 1919, in mezzo al salone con l’Orchestra di Jim Europe a fantasticare assieme a Gabe amico fraterno, ma sbruffone, sul loro futuro: Bill mette subito in mostra le doti di ballerino di tip-tap, seducendo, corrisposto, la bellissima Selina, diva di Black Revue, cantante e danzatrice, che fa ingelosire l’antipatico manager pianista. I due si incontrano di nuovo, molto tempo dopo, nella bettola dove suona il divertentissimo Toto Wells, canta la focosa Ada Brown e serve ai tavoli Bill, richiesto però da Selina per il nuovo spettacolo. E infatti, grazie al talento, Bill ruba la scena al pianista nello sketch, dove, anziché limitarsi a suonare il tamburo in ultima fila, improvvisa un’eccellente coreografia. Tra Bill e Selina i giochi sembrano fatti sia dal punto di vista artistico-professionale sia per quanto concerne i loro sentimenti, ma alla richiesta di metter su famiglia, la donna preferisce tenersi la carriera in continua ascesa. La strade fra i due si separano fino a quando, nel 1943, Cab Calloway chiama Bill a partecipare appunto a uno show per l’esercito e a sorpresa, oltre la Dunham, ritroverà Selina ora finalmente disposta a esaudire il desiderio genitoriale.


La storiella resta debole, oltretutto infarcita di stereotipi sui “poveri negri” bonaccioni, dai gesti alle parole, ma il film nel complesso si riscatta nel presentare i venti numeri musicali che occupano circa l’ottanta per cento dell’intera pellicola: le musiche sono dell’ebreo Harold Arlen (1905-1986) geniale songwriter degno di stare accanto ai vari Gershwin, Berlin, Porter, che firma non solo il leit-moitv che dà il titolo all’opera (scritto però dieci anni prima) ma anche tutte le quattro canzoni eseguite dalla vedette e i complessivi temi e arrangiamenti. Il cast è stellare Lena Horne è Selina Rogers, Bill Robinson è Bill Williamson, Dooley Wilson è Gabe Tucker, Fats Waller è Toto Wells, Cab Calloway, Katherine Dunham, Ada Brown e i Nicholas Brothers sono se stessi. Paradossalmente è proprio la protagonista a essere la meno jazzistica, giacché ancora legata a un canto operettistico, mentre il blues della Brown, l’hot di Waller, lo swing di Calloway sono straordinari, come pure le danze “selvagge” ma “jazz inspired” che raccontano indirettamente l’evoluzione dei balli neri in America dall’influenza della quadriglia al ritorno alle origini con uno stile un po’ jungle un po’ exotica, di cui si apprezza oggi anche il kitsch palese come modello di un’epoca.


Il film, alla fine, per molti versi, porta avanti anche un discorso emancipatorio nei confronti della comunità afroamericane perché sia il regista sia il compositore mostrano di amare la musica nera facendola diventare fin da subito la primadonna assoluta; e in un periodo in cui assai raramente attori di colore ottengono un ruolo di una qualche importanza nelle produzioni hollywoodiane, tanto la 20th Century Fox quanto la MGM offrono ambedue popolari lungometraggi con il cast tutto di neri: se la prima dunque produce Stormy Weather, la seconda non è da meno con Due cuori in cielo (Cabin in the Sky) di Vincente Minnelli e Busby Berkeley, anch’esso musicato da Harold Arlen. E infine nel 2001, la Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti inserisce Stormy Weather nella lista dei cento film americani culturalmente più significativi, selezionandolo per la conservazione nel National Film Registry, spinta forse dai valori indiscussi sul piano musicale-coreografico e da come il regista – che dirige il terzo di cinque musical degli esordi 1937/1944 With Words and Music, The Great Victor Herbert, Hi Diddle Diddle, Sensations of 1945, salvo poi propendere per il giallo e l’horror – descrive il modus vivendi degli afroamericani o meglio dell’idea che i bianchi hanno dei neri tra le due guerre che cambiano definitivamente il mondo, ma non certi pregiudizi.