Foto: Archivio Gianni Gebbia
Sax a tre punte?
Intervista a Gianni Gebbia
Tra coloro che ci sentiremmo in tutta obiettività di indicare come un talento completo e da esportazione, Jazz Convention ha inteso ospitare un esponente sassofonistico operante da un tempo pluridecennale, regolarmente attivo su tre continenti, dedicando per un percorso personale alcuni mesi dell’anno in Giappone, da cui ha sviluppato un reticolo di interessi anche extramusicali, e non mancando partnership regolari con nomi forti dell’avant-jazz statunitense, offrendosi nel passato ad incontri anche con figure storiche del jazz europeo, dispensando regolari appuntamenti al pubblico dalla sua Palermo e, per naturale curiosità, più recentemente operante in ambiti anche multimediali.
Incontriamo Gianni Gebbia all’indomani della sua incisione in coppia con il bassista-monstre Michael Manring e alla vigilia del suo corrente tour nell’area parigina, intrattenendoci con un conversatore attento e un artista piuttosto completo di cui riscopriamo il complesso background, esposto con un atteggiamento spesso poco omologato, con spunti controcorrente e realisticamente partecipante.
Jazz Convention: Perché il sassofono?
Gianni Gebbia: La mia scelta del sax come strumento deriva dall’innamoramento nei confronti del disco This is our music di Ornette Coleman, comprato di importazione quando ero un ragazzo. Allora, in seguito venne uno “zio d’America” a trovare i miei genitori e mi chiese se volessi un regalo specifico ed io, sfacciatamente, gli chiesi un sax… e lui, me lo comprò! Questo è tutto.
JC: Particolarmente nelle performances in solo si registra un approccio molto fisico: respirazione circolare, sax “preparato”, generazione di sonorità multiple, esplorazione radicale – una volta tanto la ricerca non è soltanto vantata ma posta in essere.
GG: Beh, se è così che arriva all’ascoltatore o ad un critico posso considerarmi soddisfatto poiché non mi ha mai interessato la ricerca fine a se stessa bensì, secondo l’insegnamento che mi diede una volta Steve Lacy, che la ricerca di territori nuovi o strani dev’essere tesa al fine di creare buona musica.
JC: Vorresti parlarci del tuo arsenale strumentale?
GG: Una volta, agli inizi, era davvero un arsenale, nel senso che suonavo varie tipologie di saxofoni ed anche i clarinetti, ma poi con il tempo ho sentito l’esigenza di concentrarmi su uno solo ed immettere tutte le influenze raccolte sugli altri strumenti in uno e per questo ho scelto il contralto che era lo strumento con il quale avevo iniziato. A questo aggiungerei il fatto che vi sono due lines ben precise almeno nel jazz: i polistrumentisti ed i solisti di uno strumento solo, ed io preferisco la seconda categoria. Poi il tutto è soggettivo e vi è chi ha raggiunto un livello altissimo in tanti strumenti, io preferisco concentrarmi su uno solo ad eccezione di rare volte nelle quali suono il sax sopranino in mi bemolle e vari flauti, preferibilmente uno shinoubue, un flauto tradizionale giapponese, ma sono davvero casi rari se si eccettua l’utilizzo di alcuni pedali elettronici che invece utilizzo spesso a seconda delle situazioni.
JC: Consideriamo adesso gli influssi stilistici.
GG: Sono tantissimi… Agli inizi sicuramente la scuola della “loft scene” newyorchese dei primi anni 80 e cioè Black Arthur Blythe, Oliver Lake, Julius Hemphill e compagni ma anche Evan Parker, Brotzmann, Han Bennink più tutti i grandi del jazz ed in particolar modo Ornette Coleman e Jackie Mc Lean. Successivamente mi sono tenuto al corrente su tutte le novità e grossi innovatori come Steve Coleman e tanti altri.
JC: Una panoramica della tua discografia, inclusi i personaggi incontrati.
GG: Ho inciso numerosi dischi ed incontrato moltissimi grandi musicisti ma tra le tante esperienze metterei in primis quella avuta nei primi anni 90 nell’incisione del disco Cappuccini Klang assieme ai due grandissimi freeman: Gunther Baby Sommer e Peter Kowald, una vera e propria lezione di musica che mi ha condotto su ottime strade. Altra stima infinita la provo nei confronti di Fred Frith che considero uno dei musicisti più duttili dal punto di vista dell’ascolto che abbia mai conosciuto. Proprio qualche mese fa ho pubblicato anche un paio di dischi con due illustri partner: uno è con Wadada Leo Smith assieme al mio trio americano con Garth Powell e Matthew Goodheart e l’altro assieme al grandioso bassista elettrico Michael Manring. Entrambe le volte è stato fantastico trovarsi accanto ad artisti così grandi e personali.
JC: Approfondiamo i contenuti dell’ultimo (o ultimi) lavoro?
GG: I miei ultimi lavori discografici sono liberi da un legame ad un genere particolare o meglio sono legati a generi differenti ma uniti dalla voce del mio sax alto: uno è un lavoro dal titolo Screaming in daytime fatto assieme al trio che ho da anni in Usa Zen Widow (assieme al batterista Garth Powell ed al pianista Matt Goodheart) con ospite il grandissimo Wadada Leo Smith alla tromba ed uscito per l’etichetta californiana PfMentum, poi ci sono i prodotti della mia etichetta discografica chiamata Objet-a e sono in ordine una serie di lavori in progress intitolata Songs from the Colosseun of your Mind (Canzoni dal Colosseo della tua Mente). Il primo Volume è molto melodico e quasi pop con ospite la cantante e pianista giapponese Eiko Ishibashi, il secondo è rigorosamente jazzistico in quartetto tutto italiano, il terzo volume sarà invece probabilmente il mio nuovo sax solo nel quale presenterò delle nuove sequenze molto legate ai miei primi soli degli anni ’90. Ed infine, appena pubblicato, Paradoxicon, un lavoro in duo con uno dei maestri indiscussi del basso elettrico, il grandissimo Michael Manring. Oltre ai CD “fisici”, come quello di Zen Widow, i miei lavori si trovano nelle piattaforme online più ufficiali come iTunes, Amazon etc e, per gli amanti della qualità sonora, sulla piattaforma indipendente BandCamp che consiglio vivamente.
JC: Alcune tue produzioni esistono (ma il fenomeno ha preso ormai campo) in formato download-only. Come giudichi il valore di queste piattaforme, e qual è il contributo di Internet alla diffusione della musica di qualità?
GG: I motivi sono tanti… e penso non ci si possa opporre a quelle che sono le evoluzioni dei media. Fare dischi per noi musicisti di nicchia è sempre stato difficile e dispendioso e tranne in rari casi le vere produzioni erano quasi inesistenti, le distribuzioni assolutamente fallimentari e spesso disoneste, nel senso che di rado pagavano i dischi inviatigli in “conto vendita” etc. più i limiti distributivi, nel senso che i dischi avevano una circolazione limitatissima e finivano per essere quasi esclusivamente dei costosi biglietti da visita per alimentare le collezioni degli amici critici o finire nel cestino dei grossi manager ed organizzatori…Unica eccezione era quella di una “touring band” e cioè di un gruppo che svolge numerosissimi tour e può vendere i propri dischi ai concerti anche se pure in quel caso la quantità dei compratori andava scemando per motivi economici e cioè acquisto di un biglietto per il concerto più acquisto del CD… un po’ eccessivo. Oggi invece tutto è cambiato nel bene e nel male con la Rete. Siamo di fronte ad una smaterializzazione dei prodotti che ha molti lati per me positivi e le piattaforme digitali offrono molte possibilità inaspettate e proverò ad elencarne alcune: la musica ha la possibilità di essere diffusa capillarmente ed ovunque nel globo, cosa che prima era impossibile se non tramite le majors, buona parte del prodotto musicale a seconda dei casi è economicamente nelle mani degli artisti o produttori stessi, il costo è minore ma anche il ricavo ovviamente. Di contro i lati negativi possono essere tanti e di solito viene obiettata la mancanza di qualità dei files da scaricare ma vorrei dire che con piattaforme come bandcamp.com questo problema non sussiste poiché si tratta una piattaforma dove si può scaricare la musica in alta qualità persino superiore a quella di un CD. L’unica cosa che trovo ancora poco creativa è il fatto che non è facile scoprire i prodotti online sparsi nel mare magnum del Web e poi che la sovrainformazione creata dalla Rete è fonte di deconcentrazione del pubblico nei confronti del prodotto, mentre prima l’appassionato era molto più concentrato e curioso, oggi molto spesso vive in uno stato di perenne “zapping”… ma, ripeto, a questo “progresso/regresso” non ci si può opporre.
JC: L’approccio all’Oriente, che già toccò ai Coltrane, Sun Ra, Cherry (e qualche più recente epigono) nel tuo caso non è un dettaglio di colore ma un investimento di vita: vorremmo parlarne, tutto incluso?
GG: Sono da sempre attratto dalle culture orientali ma non per moda bensì perché avendo sin da giovanissimo studiato le filosofie occidentali e quelle orientali sono giunto alla conclusione che alcuni approcci orientali in quanto “non dualisti” sono molto più consoni alla vita e situazione contemporanea ad esempio lo Zen del quale sono un adepto, ma il tutto senza alcuna forma di fanatismo religioso o altro, bensì in una prospettiva di chiarezza mentale. Per questo motivo mi sono dedicato abbastanza alla pratica della meditazione Zen.
JC: Ti sei certamente interfacciato anche con differenti realtà e apporti di altri paesi e culture.
GG: Si indubbiamente ed in particolar modo ho avuto modo di conoscere abbastanza bene gli Stati Uniti ed il Giappone ed assaporato le loro musiche e tradizioni vedi il jazz.
JC: Tornando ai tuoi luoghi d’origine, certamente la tua cultura è pervasa di spunti mediterranei e levantini. Ma c’è anche una specificità territoriale coltivata (un “sax a tre punte”, diremmo) ?
GG: Bella l’immagine di un sax a tre punte! Credo di essere stato molto influenzato dalla mia cultura siciliana ed isolana ma anche da quella della Sardegna tramite esperienza di musiche folk, o world music si direbbe oggi, e contatti con vari maestri di queste tradizioni. Credo che molti aspetti della mia musica siano legati a delle radici specifiche facenti parte della mia vita e di recente sono rimasto molto colpito dal fatto che vi siano dei musicisti che hanno attinto evidentemente a piene mani dai miei lavori in solo ma, al momento di dover spiegare da dove gli derivano queste cose non sono in grado di dare alcuna spiegazione o genealogia plausibile, il caso più eclatante è il sassofonista americano Colin Stetson divenuto ormai una sorta di “rockstar” grazie alle sue collaborazioni con vari gruppi famosi, orbene mi ricordo molto bene che quando lui era un ragazzo abitava a San Francisco ed assisteva alle mie performance in solo dalle quali è stato, diciamo “pesantemente” influenzato ma poi nelle varie interviste che rilascia per famose riviste non dà alcuna indicazione nonostante l’evidenza su dove gli derivino quelle “textures”. Intendo dire che nel mio caso è molto semplice ed ho sempre detto pubblicamente che i miei lavori in solo sono la risultante esistenziale e stilistica dello “scontro/incontro” tra le esperienze folkloristiche siciliane e la frequentazione dei grandi maestri delle launeddas sarde come Dionigi Burranca accanto alle folgorazioni ricevute a Pisa dalle performance di gente come Evan Parker, l’ascolto di Roland Kirk etc, roba “rooty” per dirla in breve. Oggi invece, con tutto il rispetto per il lavoro di uno Stetson, con l’avanzamento dei media che sostituiscono l’esperienza reale, si “prende” qualcosa senza alcun vissuto storico, la si copia ed il simulacro diventa l’originale. Purtroppo questo fenomeno perverso è dovuto a tanti fattori fra i quali l’assenza di storicizzazione seria di certa musica soprattutto in Italia ed in tutti i paesi diciamo minori, l’ipnosi mitologica operata dai media persino nei confronti degli addetti ai lavori, la storica mancanza di mezzi di diffusione per i musicisti italiani sempre trattati secondariamente causa esterofilìa del nostro paese tranne poche eccezioni. Il risultato è che se sei italiano sei nulla, se sei americano invece sei OK…. Aggiungerei inoltre il fenomeno della creazione di vere e proprie “miniholding” in ambiti persino avanguardistici che hanno fatto lievitare i prezzi a livelli inauditi sino alla metà degli anni duemila, basta pensare ai cachet da capogiro raggiunti da alcuni gruppi ormai comunque vaghi ricordi in un’Europa ristrutturata da un liberismo imposto e la conseguente sparizione degli aiuti finanziari alla cultura che però, bisogna sottolineare, che da una giusta distribuzione iniziale arrivarono alla totale sperequazione fino a metà 2000.
JC: Oltre al valore del retaggio popolare, più volte ti sei affacciato con curiosità al remoto passato: da fascinazioni barocche (Leçons de Ténèbres, etc.) ad autori rinascimentali: cos’ha da donare al futuro questo passato?
GG: Il passato ha moltissimo da insegnarci ed è spesso, politicamente e culturalmente più valido del presente nel senso che non smette di darci grandi lezioni e poi, rifacendomi a quanto detto prima, ci dà quel senso della filiazione e della genealogia che per l’appunto manca ed è spesso “ad usum delphini”. Su un versante strettamente musicale pensiamo invece alla qualità della musica antica libera dal giogo del sistema temperato oppure le musiche tradizionali con le loro scale ed intonazioni sui generis, che grandi e continue lezioni!
JC: Vi sono media e substrati non-musicali (cinema, teatro, letteratura, calligrafia etc) da cui hai tratto ispirazione in musica?
GG: Beh si direi tantissimi e forse anche più della musica in sé, senza alcun dubbio e la lista sarebbe davvero infinita, senza rifletterci troppo metterei in ordine tutti i danzatori con i quali ho lavorato che sono tantissimi, la danza butoh giapponese, il cinema di maestri con il quali ho lavorato come il compianto Raul Ruiz e che mi ha dato un input non indifferente nel fare anch’io stesso dei film che fino ad ora sono 4 tra film e docu-film e che ho fatto proprio perchè credo di avere più che altro uno spiccato senso visivo e non solo in musica. Tra l’altro fare dei film interamente autoprodotti filmati e montati da me lo trovo un lavoro molto musicale e mi dà anche la possibilità di lavorare principalmente sulla musica e sulle immagini più che sulle parole. Poi ho un’influenza enorme da parte della pittura e di tutte le altri arti visive che mi ha anche portato a farmi da me le copertine dei miei CD la maggioranza delle volte anzi addirittura il più delle volte lo richiedo ai produttori come condicio sine qua non. La letteratura direi invece che è la cosa che mi ha influenzato di meno.
JC: Un tempo si amava dire “Tutto il privato è politico”: adesso come stiamo messi?
GG: Adesso direi che è un gran casino! I social network hanno ufficializzato il gossip ed offerto una scena performativa a tutti, cosa dire? Bisogna vedere a cosa porterà tutto ciò, il bilancio tra lati positivi o negativi al momento è direi, 50 e 50
JC: Qual è oggi lo stato di salute della musica? E del jazz?
GG: Senza voler essere pretenzioso ma davvero con il grande amore che nutro verso questa forma musicale, il jazz e le musiche improvvisate, direi che, come ogni stile, dopo anni di grandi frutti, oggi si trovano nel loro periodo manierista, ciò non impedisce che spùntino delle cose valide ed interessanti ma siamo pur sempre nel Manierismo, in pittura per esempio apparve anche un Watteau geniale ma che riconfermava il manierismo e cioè l’estremizzazione della forma, dei dettagli, delle decorazioni. Dal punto di vista sociologico direi invece che è finito tutto: un tempo vi era una grande purezza nel mondo del jazz e dintorni, sia economica che emozionale e soprattutto critica, il tutto era vitale e lontano dall’establishment organizzativo, i critici scrivevano con purezza e senza interessi, i direttori dei festival dedicavano molto spazio ai grandi ed ai meno grandi, ai vecchi ed ai newcomers, e lo so per esperienza diretta avendo suonato ai miei esordi dividendo il palco con gente come Wayne Shorter, Marsalis, Art Ensemble of Chicago etc. Oggi invece è diventato esattamente come in ogni altro business musicale pop, canzone rock etc e basta sfogliare alcune riviste di jazz per esempio giapponesi o americane e scambiarle per riviste di moda! Da un’altro versante invece gruppi ed artisti che erano sulle scene sono stai marginalizzati da questa commercializzazione del sistema e potrei fare una lista lunghissima. Per dirla in termini secchi e brevi: prima contava la musica e la comunicazione ora tutto tranne che la musica e cioè i vestiti, se sei donna o uomo, bello o bella, feeedback extramusicali, di genere, di provenienze politicamente corrette verso cause extramusicali giuste o meno, iperpresenza nei media, look trendy e cool studiato a tavolino per volgarizzare o devolgarizzare, totale acriticità, ipocrisia mascherata da apparenza spirituale etc etc, non so se rendo l’idea, basta guardarsi intorno…
JC: La tua opinione ed esperienza circa il panorama del Jazz locale e nazionale.
GG: Il jazz mainstream ha raggiunto dei livelli altissimi in Italia come ovunque, grazie alle scuole e c’è l’imbarazzo della scelta su chi citare, il livello è altissimo senza dubbio, soprattutto da un punto di vista tecnico. Nutro però dei forti dubbi sull’originalità persino nei casi più insigni, vedo solo manierismo, e quel tipo di jazz lì dal punto di vista dell’originalità non ha superato né un Franco D’Andrea né un Enrico Pieranunzi. Sul versante del jazz più moderno ed originale direi che dopo la wave degli anni ’80 e ’90 culminata in un certo italian jazz tipo l’Instabile Orchestra, Gianluigi Trovesi, Schiaffini etc siano apparse un paio di realtà collettive e cioè i musicisti vicini all’etichetta Gallo Rojo ed Improvvisatore Involontario, più qualche altro solista fuori da questi collettivi a Bologna, ad esempio gli ex Basse Sfere. Poi citerei qualcuno che ha continuato sin dagli anni ’80 e ’90 a rinnovarsi e se devo fare dei nomi penso a gente come Battaglia, Petrin. Ma in generale direi che le cose nuove non le trovo mai nel campo strettamente jazzistico per tutti i motivi che ho elencato durante le risposte precedenti. La scena jazz siciliana vanta una buona tradizione ma pochissimi casi usciti fuori dal circuito reiterativo di cui parliamo sopra e pure là le cose migliori per me vengono da altri mondi musicali. Il jazz è come i pittori di madonne medievali, si segue un codice ben preciso dal quale escono fuori dei barlumi di originalità ma che fa da linguaggio pratico comune, con i suoi licks, patterns etc, questo per me non è negativo, è solo una modalità molto pratica di scambio su un livello anche di lavoro musicale diciamo quotidiano, di mestiere e che permette di incontrare molti musicisti. L’originalità e la ricerca sono un’altra cosa, che spesso oggi diventa conflittuale da inserire in una forma così stilizzata e scolarizzata come il mainstream oppure va mediata, ripeto, non ci trovo nulla di male in alcuna forma musicale, non ho alcuna prevenzione e credo di sottolineare solamente degli aspetti estetici e strutturali abbastanza evidenti.
JC: Che cosa dobbiamo intendere (perché sia tale) per Avanguardia? E per jazz?
GG: E’ difficile ormai rispondere ad una domanda così… prima era facile e molto definito cosa fosse avanguardia, oggi e tutto più complicato – così, in generale direi tutto ciò che in qual modo è innovativo e davvero originale, che sia jazz o altri generi.
JC: Qual è il tuo bilancio personale sul “mestiere dell’artista”?
GG: Quella dell’artista è una vita dura e piacevole piena di soddisfazioni ed insoddisfazioni un po’ come tutti i liberi imprenditori di se stessi: che dire? Ci sono enormi mancanze in Italia dal punto di vista dello status lavorativo, enormi vuoti sul sistema pensionistico ma anche su quello dei compensi del diritto d’autore ed in generale su tutte le condizioni lavorative. Bisogna essere pronti a tutto, adattarsi ad ogni tipo di contesto e trarre piacere dal fatto di dare piacere ed emozioni al pubblico. Continuiamo !
JC: Tra Jazz e Zen: con quale aforisma vogliamo congedarci?
GG: Mi fanno spesso questa domanda ma richiederebbe discussioni lunghe e che esulerebbero un bel po’ dagli argomenti strettamente musicali. Posso concludere dicendo che in generale le due pratiche le considero apparentate perché hanno entrambe a che vedere in un primo livello, con la concentrazione e l’applicazione costante e ripetitiva dell’attenzione concentrata.