Slideshow. Vanessa Tagliabue Yorke.

Foto: da internet










Slideshow. Vanessa Tagliabue Yorke.


Jazz Convention: Innanzitutto chi è Vanessa Tagliabue Yorke?


Vanessa Tagliabue Yorke: Vanessa è un lepidottero dell’ordine delle Nymphalidae, la quasi totalità delle farfalle ha una vita molto breve, che di norma non supera la decina di giorni. Soltanto alcune specie, in particolare le Vanesse, hanno una vita lunga che può arrivare a durare addirittura undici mesi. Questo tipo di insetto, la Vanessa, è dotato di una straordinaria resistenza, capacità di adattamento alle situazioni climatiche più ostili ed ha una grande determinazione. Le grandi ali le consentono di volare verso il cielo del temporale o attraverso il vento del destino e marroni screziate di rosso simboleggiano la sua nichilistica fedeltà alla terra.



JC: Perché questo strano doppio cognome


VTY: Il mio cognome è doppio per sua natura e contiene questo rimando violento alla carneficina dei bovini… Come mi disse il mio maestro, il grande poeta Giancarlo Majorino, Vanessa Tagliabue suona come un corpo-anima, etereo e brutale allo stesso tempo. Questo movimento di farfalla e questa violenza del mondo dovevano trovare un equilibrio accettabile, oppure una direzione. Yorke è il cognome del mio cantante preferito e a un certo punto della mia vita ho deciso che non avrei potuto proseguire senza una direzione.



JC: Ci racconti ora del tuo disco registrato dal vivo in Usa


VTY: Racine Connection è il frutto di un viaggio profondissimo. Devo sintetizzare e quindi mi limito a dire che si tratta di una ricerca personale che io ho dedicato alla figura di Annette Hanshaw, recandomi a New York, dove questa cantante straordinaria è nata, poi a Chicago e Davenport, dove vissero i grandi musicisti con i quali suonò; Bix Beiderbecke, Eddie Lang, Miff Mole, Jean Goldkette, Frankie Trumbauer… Ho suonato e trascorso le mie giornate con i migliori musicisti del jazz tradizionale del midwest, come Andy Schumm, che è considerato la reincarnazione di Bix.



JC: E cosa ne è venuto fuori?


VTY: Il mio Racine Connection è quindi la registrazione del nostro Live al festival A Tribute to Bix in Racine dove sono stata invitata come ospite internazionale a causa del mio profondo amore per questa musica che di solito viene sottovalutata. Nel Booklet c’è il diario di viaggio nel Midwest… con tutte le foto delle tombe Bix, Pinetop Smith, le foto dei miei amici americani, noi ai mercatini di dischi 78rpm…



JC: Il primo ricordo che hai della musica?


VTY: È molto intenso: sono sul balcone di casa, è estate, mio nonno Frank è vicino a me, si sente una indefinita musica di fondo venire dalla strada e lui mi insegna a riconoscere il “tempo” battendo all’unisono con me un bicchierino di plastica sul tavolo di pranzo. Mi si era aperto un mondo.



JC: I motivi che mi hanno spinto a diventare una cantante jazz


VTY: Lo sono diventata perché all’audizione per l’ammissione alla Civica Scuola di Jazz di Milano non ero stata presa. Mesta e avvilita sono uscita per strada e mi sono appoggiata al muro a pensare. Una ragazza vedendomi vicino alla scuola mi ha detto «Scusami, ma tu sei una cantante? Il mio fidanzato ha un gruppetto di jazz e sta cercando una cantante…»



JC: Perché hai scelto proprio l’hot jazz in particolare?


VTY: Il cosiddetto jazz tradizionale è per me la materia oscura dalla quale attingiamo in ogni respiro che precede la nota, anche se non lo sappiamo, anche se non volessimo.



JC: Cos’è per te il jazz?


VTY: Il carattere fondamentale del jazz è l’oralità, non esiste jazz senza questo impulso. Il jazz non è scritto, il jazz è raccontarsi nell’istante. I migliori arrangiamenti della storia della letteratura musicale dai suoi primordi a oggi, sono ancora quelle pagine nelle quali il pensiero dell’arrangiatore conosce profondamente le caratteristiche specifiche dei propri solisti e dialoga con loro attraverso una complessa dimensione di coralità che fa emergere il colore che li caratterizza o che usa questo colore in un articolato discorso a più voci in contrasto…



JC: E a quali jazzmen pensi in tal senso?


VTY: Penso a Mingus oppure a Duke Ellington con Johnny Hodges, con Bubber Miley… La mia esperienza personale con i Sousaphonix di Mauro Ottolini non è stata diversa. Mauro è un arrangiatore geniale per quanto mi riguarda, ho imparato da lui a comprendere questa sottile e necessaria sensibilità timbrica, questo sovraffollarsi e poi svuotarsi e spostarsi del “qui ed ora” verso l'”Altrove”…



JC: Per te, donna, l’ambiente del jazz è maschilista?


VTY: Il mondo è maschilista. Il mondo è razzista, anche nella società dello spettacolo, anche nella riunificazione del separato (riunito solo in quanto separato), esiste un razzismo spietato ed è un razzismo al contrario, oppure un razzismo dell’immateriale. Il capitale, che raggiunge un tale livello di accumulazione da divenire immagine, è la pietra angolare sulla quale poggia la separazione. Il rapporto tra gli individui è mediato dalle immagini, se l’immagine dominante è il potere e l’eredità del nome passa di padre in figlio, allora il mondo deve essere maschilista. Per questo vale la pena essere un lepidottero, piuttosto che una donna. Perché, spesso, chi non compra, vende.



JC: C’è un brano jazz al quale sei particolarmente affezionata?


VTY: Decisamente If you want the rainbow you must have the rain. È la canzone che mi lega di più ad Andy Schumm, il mio eroe e amico. È un brano commuovente che adoro nell’incisione della Hanshaw. È un brano dall’atmosfera delicata e sommessa, che esprime con sincerità quale sia la condizione umana, sempre tratta in questa eterna imperfezione, questa incompletezza. Andy è uno che per poter studiare certe volte si chiude nella sua macchina tre ore, perchè non ha altro posto dove andare. Se vuoi l’arcobaleno devi sopportare e studiare tre ore chiuso in macchina



JC: Quale dischi – jazz e non – porteresti con te sull’isola deserta?


VTY: The sky above Braddock dei Sousaphonix e Ok Computer dei Radiohead. Per addormentarmi la notte senza fare incubi e per risvegliare la speranza che la vita abbia un senso invece mi porterei Benedetti Michelangeli: una incisione della Cattedrale inghiottita di Debussy.



JC: Hai dei maestri nel jazz?


VTY: La mia vita adesso si divide in “prima di incontrare Ottolini” e “dopo averlo incontrato”. Io ho imparato tutto dai dischi e da quei musicisti con i quali ho suonato quello che ascoltavo sui dischi preferiti. Il mio affetto va al mio maestro Paolo Tomelleri, al grande amico Marco Fumo e a Vittorio Castelli. Poi un giorno ho incontrato i Sousaphonix e mi sono sentita come un bambino povero che si siede alla tavola imbandita dove c’è tutto dall’antipasto al dolce. Ho studiato canto lirico con Fiorella Prandini e per due anni e mezzo Concetto Campo è stato la mia guida in un percorso profondissimo con l’orecchio elettronico di Tomatis.



JC: E i tuoi modelli musicali nel canto?


VTY: Sono senza dubbio Maria Callas, Billie Holiday, Annette Hanshaw, Bessie Smith, Thom Yorke e Kurt Cobain.



JC: Con quale genere di musicisti ami collaborare


VTY: Con quei musicisti che amano e rispettano il jazz e che hanno una loro voce personalissima e fortissima. Quando Mauro suona il trombone mi sembra di sentirlo cantare delle parole, in una dimensione emotiva precisissima, con la stessa incisività che conosco nella mia preferita Billie Holiday, quando lei piega una nota di un testo e ne cambia tutto il significato. Quando Vincenzo Vasi fa il combattimento dei dinosauri al posto dello scat su Buster Keaton Blues e chi ascolta capisce tutta la dinamica psicologica che intercorre tra il draghetto di plastica e Pippo… capisco che poche altre persona al mondo sono capaci di trasformare così profondamente la materia musicale nell’istante.



JC: Come vedi la situazione musicale e culturale nel nostro Paese?


VTY: La cultura in Italia è un serpente boa che inghiotte la propria coda illudendosi di consumare un pasto, mentre in realtà si autodigerisce.



JC: Progetti per il futuro?


VTY: Ho un progetto a scatola cinese che si scompone e si ricompone a seconda delle condizioni climatiche: Un quartetto che si chiama Smashing Triad, composto da Enrico Terragnoli al banjo, Mauro Ottolini al Sousaphone, un ospite a sorpresa ed io che suono le pentole cromatiche dette “pentolofono”: uno strumento di nostra invenzione che celebra lo spirito di Annette Hanshaw rinchiuso in cucina, dopo essere scomparso dalle scene all’apice della popolarità nel 1932 (per dedicarsi alla vita domestica). Questo quartetto col nome da trio, si trasforma in un duo per trombone/sousaphone, pentolofono e voce, che sviluppa ulteriormente le potenzialità musicali delle voci mie e di Mauro, la nostra accidentale simbiosi e le possibilità timbriche, dialogiche ed evocatrici di ciascuno… il nostro duo, dove Tagliabue incontra Ottolini, si chiama Tagliolini… sempre per stare nel leit-motiv del doppio cognome!