Glauco Venier: Tom Waits, un amore al primo ascolto!

Foto: Andrea Buccella










Glauco Venier: Tom Waits, un amore al primo ascolto!


Chi conosce l’opera di Tom Waits sa bene quanto il cantautore americano abbia attinto a piene mani nel florido campo del jazz per tessere in musica i testi delle sue canzoni. Il jazz spesso si riprende quello che regala, lo trasforma e lo adatta al suo mondo. Glauco Venier si è calato nell’operazione, ha colto il carattere dell’artista e della sua musica, quella sensibilità profonda che si cela dietro le fattezze di duro ma perdente uomo della strada, beautiful loser, cantore di storie marginali e disperate. Venier ha metabolizzato e fatto suo l’universo Waits restituendoci attraverso l’inesauribile risorsa chiamata improvvisazione un nuovo mondo che contiene Waits ma, come succede nel jazz, altre dimensioni legate alla sensibilità e creatività del musicista, in questo caso Venier e il suo bagaglio di passione e bravura. Waits è un disco pregevole, che si lascia ascoltare con piacere e trasporto. Venier, assieme a Flavio Davanzo (tromba), Alessandro Turchet (contrabbasso) e Luca Colussi (batteria), ha creato un piccolo capolavoro interpretativo fornendoci nuove conoscenze, svelando lati in ombra, patinati di durezza, dell’animo waitsiano.



Jazz Convention: Come nasce questo tuo progetto/tributo dedicato al cantautore americano Tom Waits? Da quanto tempo ci stai lavorando?


Glauco Venier: Vivo in una zona della bassa friulana dove ci sono, vicino all’adriatico, molte paludi salmastre. Una sera con un mio amico siamo andati a pescare anguille. Lui mi ha fatto indossare il walkman e mi ha fatto sentire Tom Traubert’s blues di un certo Tom Waits, che non conoscevo. Mi sono subito commosso. Si parla di una quindicina di anni fa. Da lì ho cominciato a pensare a un tributo. Lo sentivo molto vicino alla mia sensibilità melodica. Lasciai il tutto nel cassetto per quindici anni. Intanto tra un progetto e l’altro facevo delle trascrizioni di brani di Waits dai dischi degli anni ’70, che sono molto più vicini al mio concetto melodico e sono molto vicini al gospel, al soul, al jazz e al blues. Ho fatto una cernita in questi anni ma sempre con calma, pensando che avrei realizzato un progetto che si differenzia, tra l’altro, dai miei perché è una cosa semplice ed è molto cantabile. Si può fare una cosa senza leggere gli spartiti, andando a orecchio modificando ogni volta non dico la struttura ma gli accordi. Ti permette di essere vivo, di suonare rubato, free.



JC: Che cosa è per te la musica di Tom Waits, un musicista che ha avuto diverse fasi “musicali” nella sua lunga carriera?


GV: Appunto perché ho fatto un disco strumentale penso che sia uno dei pochi cantautori che attraverso la forma e la melodia, senza il testo, puoi intuire quello che sta dicendo. È molto evocativo dal punto di vista melodico. A differenza di tanti altri cantautori che si concentrano o sulla melodia o più sul testo c’è un notevole bilanciamento formale tra i due aspetti. Qui siamo ad altissimi livelli. Anche se togliamo la melodia rimane un testo poetico che sta in piedi da solo e viceversa, evoca quello che Tom Waits vuole raccontare.



JC: Quale criterio hai usato nello scegliere i brani di Waits? È stato facile attingere dal suo vasto e variegato repertorio? Qui sono presi in “esame” otto suoi dischi compresi in circa vent’anni di attività. E gli arrangiamenti?


GV: Ho usato il criterio della cantabilità e della melodia, non ho seguito il discorso sperimentale che Tom Waits porta avanti da sempre. Ho preferito il lato blues e gospel. È stato facile attingere dal suo repertorio perché è vasto. Ho cercato molto nei suoi dischi degli anni ’70 e ’80. Per gli arrangiamenti ho scelto il quartetto e devo dire che l’ho fatto per ragioni pratiche. Da un bel po’ di tempo lavoro con questi ragazzi, Flavio Davanzo, Alessandro Turchet e Luca Colussi. Abitano tutti in Friuli Venezia Giulia e quindi non devo stressarmi negli spostamenti. Sono un insegnante di conservatorio. Lavoro a Udine e se posso, preferisco non viaggiare, nel senso che già viaggio molto con Norma Winstone e Klaus Gesing. Avevo un trio fino ai primi anni del duemila con Roberto Dani e Salvatore Maiore, abbiamo lavorato insieme per sette otto anni. Era un buon trio. Poi per questioni personali ci siamo sciolti e da quel periodo per diversi anni non ho più lavorato con trii e quartetti perché cercavo delle persone con cui lavorare non in maniera mercenaria. Con Roberto e Salvatore riuscivo a farlo fino a un certo punto. Io sono molto serio in questo. Non è solo una questione di prove. È una questione di annusarci sul palco, stare insieme, condividere non soltanto la musica ma l’amicizia, un po’ come fanno tanti amici musicisti inglesi e americani. Per questo ci sono dei musicisti come gli Oregon che hanno superato i quarant’anni di attività insieme, oppure Kenny Wheeler, John Taylor, Norma Winstone, John Surman e Dave Holland. Tutta questa gente si conosce, si frequenta da quasi cinquant’anni. È una cosa che mi commuove. Io cerco anche questo in un gruppo. Ho trovato questi ragazzi – Davanzo, Turchet e Colussi – che suonano benissimo, che hanno una visione che spazia a trecento sessanta gradi, perché si parte dalla forma classica e si va fino al free. Per me è un sogno salire sul palco ed esprimersi così. Il mio mito rimane Miles Davis, e dopo di lui viene Wayne Shorter. Amo salire sul palco e non fare scalette, non sapere cosa suonare. Avere un repertorio a memoria questo si, ma poi procedere e creare delle suite tra un brano e l’altro, essere liberi, parlare, nel senso che meno si parla verbalmente e più con la musica e più sono contento.



JC: Perché la scelta di suonarli in quartetto inserendo la tromba anziché un sax, strumento quasi sempre presente nei dischi di Waits…


GV: Diciamo che la tromba è arrivata perché avevo Flavio Davanzo, che è di Trieste, ad un’ottantina di chilometri da dove abito io, siamo tutti in zona. Sassofonisti qua non ce ne sono, cioè ci sono ma non si avvicinano alla mia estetica. È stato un fattore pratico, e poi, lo devo dire, si sa che la tromba è la regina di un certo tipo di jazz. Tante volte, quando Flavio è occupato, andiamo a suonare in trio. Più si riduce la formazione e più sono contento. Diciamo che il massimo lo do dal quartetto al solo. Più gente c’è e più mi estraneo. Mi sembra di essere al bar quando parlano, mi confondono. Io sono più un camerista. Mi piace riuscire a controllare quello che succede. Non mi piace la confusione. Ecco perché lavoro per ECM.



JC: Waits contiene quindici brani. Sono il risultato di una selezione fatta da un parco più ampio di composizioni? Se si, quali hai scartato?


GV: È una selezione. Ne avevo trascritti una trentina. Si sta parlando di un lavoro fatto con calma, nel tempo. Chiaramente non saprei dire quale ho scartato perché, dopo tanti anni, sicuramente li ho dimenticati da qualche parte. È un gesto d’amore verso un grande musicista. C’erano in ballo trentadue brani.



JC: Il disco si apre con Frank’s theme e termina con Innocent when you dream? Quale filo logico hai seguito per mettere in piedi la scaletta dei brani?


GV: Questo disco, per essere sinceri, lo avevo fatto ascoltare anche a Manfred Eicher della ECM, con il quale collaboro da otto anni. Ci conosciamo bene e posso anche prendermi la libertà di fargli sentire qualcosa che sicuramente non è adattabile a un discorso ECM. Glielo ho fatto sentire per curiosità, per vedere la sua reazione, per fargli sentire il mio nuovo gruppo. Lui sa che lavoro tanto in solo ed è importante fargli sapere se faccio qualche cosa in gruppo. Di scalette ne ho fatte diverse, una per l’ECM partendo dai brani più riflessivi tipo Lonely per arrivare alla fine alle apoteosi ritmiche anche se, come sappiamo Manfred non ama quest’ultime. Il filo logico che ho seguito per la produzione di Stefano Amerio è stato quello della gioia, del groove, del mettere il disco sul piatto e farlo girare. Tanti miei amici mi hanno detto: non riesco a togliere il disco dal piatto perché mi mette gioia. Vorrei che la mia musica arrivasse a tutti, non soltanto a chi ama il jazz. È un sogno che ho perché la musica è di tutti, deve toccare il cuore, far ridere, piangere, ma in senso sincero, non strizzando l’occhio al commerciale. Io sono un musicista che sperimenta, prova, e Tom Waits deve arrivare a tutti. Con questo mio piccolo disco credo di aver fatto un omaggio alla cantabilità e alla gioia. Per me è importante far sapere che non voglio lanciare messaggi di alcun genere con questo disco. C’è solo voglia di suonare insieme con gli altri, di esprimere la musica; non c’è molto filo logico, concettuale. È più istintivo.



JC: Ci puoi raccontare più approfonditamente qualcosa sui musicisti che hanno collaborato con te e sulla casa discografica?


GV: Come ho già detto, sono dei nuovi talenti che si stanno facendo le ossa. Luca Colussi lo conoscevo perché è stato mio studente nella seconda metà degli anni novanta e ha partecipato a dei corsi; Flavio Davanzo ha partecipato anche lui a quei corsi tenuti da Kenny Wheeler. È stata una novità, una felice sorpresa Alessandro Turchet, di cui avevo sentito parlare ma che non avevo mai suonato insieme. Secondo me è un musicista di talento. Mi piace molto. Sono tutti e tre molto in gamba e penso che andrò avanti con questi ragazzi più che posso. Stefano Amerio è un fratello, ci conosciamo da quando lui ha cominciato con lo studio. Era mio allievo di pianoforte e faceva delle produzioni di musica commerciale. Gli ho detto ma scusa perché non apri uno studio di jazz, c’è tanto bisogno in Italia. È partito con il primo disco nel 1994/95 e lo ha registrato con me. Ha fatto l’ingegnere del suono. È stato il primo disco di jazz e io lo ritengo il più importante. E da li che ho cominciato a lavorare sulla musica popolare della mia regione. Diciamo che sono conosciuto anche all’estero e all’ECM per i lavori che faccio sulla tradizione popolare della mia regione da una ventina di anni. Il titolo di quel disco è L’insiùm, Il sogno, e non è mai stato recensito. È il disco più bello che io ho fatto. Possiamo dire che Stefano ha registrato il primo disco di jazz con me, così gli ho chiesto di aiutarmi a produrre Waits.



JC: I tuoi nuovi progetti?


GV: Èuscito un nuovo lavoro, sempre per Amerio, che s’intitola Dodici quadri ispirato ai lavori di un mio amico artista che si chiama Giorgio Celiberti, un ottantaquattrenne bravissimo, arzillo, molto quotato come pittore, con cui ho collaborato. Lui mi ha dato sei opere e io le ho musicate free. Poi io gli ho dato sei improvvisazioni libere a cui lui si è ispirato ed ha dipinto dodici quadri. Da li dodici quadri e dodici musiche. Un altro progetto che penso uscirà in autunno a nome Venier/Corcella si chiama Sinfonica, è un lavoro per orchestra sinfonica e big band che ho realizzato seguendo le mie ricerche sulla musica popolare e antica. Poi sempre in autunno uscirà il terzo disco ECM con Norma Winstone e Klaus Gesing.