Dodicilune Records – Ed305 – 2013
Jacopo Pierazzuoli: batteria, percussioni
Carlotta Limonta: voce
Achille Succi: sax alto, clarino basso
Silvia Bolognesi: contrabbasso
Gagliarda propulsione, rutilante vitalismo “prog” sostengono compattezza ed attenzione nell’atto primo della quadrangolare band, che invoca (ma non esclusivamente) discendenza e ispirazioni monkiane, adottandone programmaticamente almeno un aforisma: «Il Jazz non è un “cosa”, è piuttosto un “come”. E quando fai delle cose secondo quel “come” – questo è jazz».
Terreno di slancio per l’infittirsi del gioco di tamburi del titolare, Seconds prospetta il suo programma d’investire su una diversificazione di forma, dispensando chiari spazi d’azione alle identità dei sodali. Cosicché, in Fingers il tocco sperimentato, l’eloquenza nitida, quanto scabrosa all’occorrenza, del contrabbasso di una sintonizzata Silvia Bolognesi prelude in forma di compatta cornice all’obliquo, pimpante e colorito scat di Carlotta Limonta in uno svincolato testa-a-testa con le note clarinettistiche più ombrose diAchille Succi, impeccabilmente sobrio e versatile come c’è da attendersi.
E ancora, poca economia di forme e di trovate per le panoplie percussive di Jacopo Pierazzuoli, che non s’astiene da una contemplativa e dilatata pausa di colore tra orientaleggianti carillon e stati vibratori arcani (Iris) prima di far sfociare acidità più segnatamente bop verso l’assestamento in melanconie bluesy, tratteggiando il processionale, notturno First Space, prevalentemente ad opera del fraseggio manierato, ma anche più affilato, delle ance di Succi.
Ben più articolata la track dedicataria del trio di compagni d’arme e consonanze, Kings of Fire che dell’igneo elemento trae pervasività ed energie propulsive, in primis incarnate dal drumming marciante, quindi dal clima torridamente fusion, sostenuto in statuarietà di forma.
Non tutto procede per linee curve o rette, come esemplificato nel guerreggiante Persia, lugubre e spettralmente macchinoso, a segnare un lacerante epilogo teso all’erosione delle architetture.
Almost Jazz non indugia, infine, sul limitare del “quasi” (benché con l’inclusione di un ulteriore paio di tracks avrebbe “magari” attinto a maggior estensione formale) e se Pierazzuoli & C con il loro “quasi jazz”, di questo conformano una visione certo (e volutamente) parziale ma, estinguendo i suoi debiti verso i molti ipotetici modelli, senza poi ricalcare o incarnarne alcuno, applicano il “what” monkiano nella guisa di un ponte dall’orma delle classicità devianti agli stilemi più correnti, implicito trait-d’union più orientato allo studio e alla rielaborazione della forma, bilanciando manierismo ed inquietudini, esitando in una sequenza che non difetta di accurata alternanza di gamma e scrupolo stilistico.