Young Jazz 2013

Foto: Fabio Ciminiera










Young Jazz 2013.

Foligno. 22/26.5.2013


Un’edizione più contenuta nella quantità e nella dislocazione dei concerti, pur senza perdere i caratteri identitari e le direzioni intraprese negli anni. Dalle sperimentazioni elettroniche del concerto di Arve Henriksen, Jan Bang ed Eri Honoré e dal suono aggressivo del nuovo progetto di Cristiano Arcelli si arriva fino alle reminiscenze krameriane dell’Ottovalnte di Mauro Ottolini, insieme al Trio Marrano, e alle radici blues del progetto Stillhouse di Steinar Raknes e naturalmente al discorso sociale promosso dalla sezione Jazz Community del festival. Situazioni musicali anche diverse tra loro che restituiscono una visione ampia del panorama odierno, soprattutto attenta nei confronti delle formazioni e degli interpreti in grado di muovere verso la sintesi di più linguaggi e atmosfere.


E, infatti, il tratto comune a molte delle performance è quello di evocare sonorità e influenze diverse nel corso del concerto, come a provocare reazioni fra differenti reagenti chimici. È l’essenza del progetto Brooks di Cristiano Arcelli – dedicato all’attrice Louise Brooks e di recente pubblicato da Auand – dove la musiva “galleggia” tra Robert Fripp e Ornette Coleman grazie ad una scrittura funzionale e ben mirata ai propri obiettivi, alla costituzione di una formazione particolare con le due chitarre elettriche di Federico Casagrande e Marcello Giannini a muoversi nello spazio solitamente occupato da chitarra e basso e dove, in questo caso, si intrecciano armonia e dialogo tra la melodia e il supporto ritmico garantito da Zeno De Rossi. La convergenza di dinamiche assimilabili a generi differenti, l’attitudine aperta dei musicisti, la soluzione sempre efficace delle trame articolate dal sassofonista danno una chiave sempre intrigante ad una musica capace di far coesistere con coerenza momenti lirici e vivide tensioni.


Lo stesso discorso si può ripetere per i due concerti del Norwegian Day. Se Stillhouse – progetto “ruvidamente” acustico e spartano, guidato dal contrabbassista e cantante Steinar Raknes – architetta intorno ai sapori del blues e della musica Americana un gruppo modulare che a Foligno ha visto sul palco Paolo Vinaccia e le sue percussioni, l’organo a pedali suonato da Andreas Utnem e la voce di Unni Wilhemsen. Al centro del concerto, le composizioni originali intercettano la logica di una formazione e si uniscono a brani provenienti dalle varie tradizioni della musica statunitensie e a successi delle stagioni del rock e del pop di qualità, riviste secondo la dimensione voluta da Raknes. Una voce profonda – vicina a quella di Kelly Joe Phelps, ma anche a certe inflessioni di Springsteen, di cui riprende I’m on fire, e Tom Waits – si pone come riferimento della formazione e del suo percorso del tutto trasversale.


A causa dell’assenza di Sidsel Endresen, i due set in programma per la serata norvegese sono stati riuniti in un unico concerto che ha visto sul palco Arve Henriksen, Jan Bang e Erik Honorè. I tappetti sonori costruiti da Bang ed Honorè si sono messi al servizio della tromba e della voce di Henriksen per una ricerca immediatamente rivolta a tanti contesti diversi. I richiami innescati dai tre guardano, infatti, alle radici colte, popolari, rock e vengono filtrate dall’interpretazione jazzistica e dagli apparati elettronici, sia quelli “precostituiti” che le rielaborazioni in tempo reale delle frasi di Henriksen. Suggestioni incrociate e attenzione totale al vocabolario sonoro utilizzato ed evocato, attenzione in grado di far utilizzare ai tre il pubblico come elemento a partire dal rumore provocato dagli otturatori dei fotografi e poi gli schiocchi delle dita e altri interventi degli spettatori pe un passaggio – il secondo del concerto – attento a cercare la spazialità della musica, dopo aver creato nel primo lungo brano sospensioni atemporali prima e una coinvolgente deriva ritmica, poi.


Suggestioni incrociate sono anche quelle alla base dei brani di Guano Padano. La bussola si sposta verso gli Stati Uniti, verso le sue frontiere, la costa occidentale, il Tex-Mex, il surf, il boogaloo: la scelta dei temi e la chimica ormati rodata dal trio composto da Alessandro Stefana, Danilo Gallo e Zeno De Rossi portano sul palco una visione colorata, allo stesso tempo, da tinte accese e accenti retrò, una malinconica elettricità, capace di accogliere con coerenza le derive cinematografiche della scrittura.


Suggestioni incrociate anche quelle dei due set proposti dal Dinamitri Jazz Folklore: improvvisazione radicale per quanto non priva di strutture e riferimenti nel pomeriggio; spinta groove e funky nell’esibizione serale. Purtroppo il concerto della formazione guidata da Dimitri Grechi Espinoza ha subito l’influsso negativo delle condizioni meteorologiche davvero sfavorevoli: il passaggio allo spazio chiuso della Taverna del Rione Ammanniti, pur salvando la possibilità del concerto, ha in qualche modo “inscatolato” l’impatto di un gruppo dalla grande varietà timbrica – dal sax al violino, dalla chitarra all’organo per arrivare alla ritmica senza basso ma ampliata dalle percussioni di Simone Padovani.


L’omaggio di Mauro Ottolini a Gorni Kramer – ma anche a Buscaglione, Carosone, Quartetto Cetra e a tutta quella musica italiana dove la canzone si unisce al jazz della “prima onda” – ha visto le voci al centro della scena: la voce di Ottolini, naturalmente, ma anche quelle del Trio Marrano, che ha raggiunto sul palco il quartetto del trombonista per la chiusura allegra della prima serata. Una esibizione rivolta a ricreare le atmosfere del materiale di partenza dove la verve cabarettistica di Ottolini si è unita con le gag che hanno introdotti i vari brani e gli interventi recitativi del trio. Trascinante, divertente, volutamente retrò e capace di accompagnare con rigore l’atteggiamento scanzonato grazie alla passione e alla pratica da sempre manifestata da parte di Ottolini – impegnato anche con la tromba, in questo caso – per questo “repertorio”, manifestata dalla registrazione di Ottovolante nel 2007.


La chiusura del festival affiata all’esibizione della Liberorchestra – così come l’apertura con Giezzisti 2.0 – testimonia l’attenzione di Young jazz per le tematiche sociali. Si parte dai laboratori tenuti nel corso dell’anno nelle strutture sanitarie: l’unione della musica con il lavoro sulle capacità relazionali è una chiave importante per consentire una possibilità di socializzare e per esprimersi in maniera più completa la propria personalità. Un lavoro prolungato negli anni, tanto che rispetto alla precedente esibizione cui avevo assistito, l’atmosfera nei camerini prima dello spettacolo era sicuramente più tranquilla, consapevole e ordinata.


Come spiega Dan Kinzelman, nell’intervista realizzata il giorno dopo il concerto, l’intenzione è quella di dare vita ad uno spettacolo dove la parte musicale – affidata alle persone diversamente abili – sia pur guidate da Kinzelman, Guidi e Tamborrino, con parti predeterminate e improvvisazioni – abbia un suo senso proprio per unirsi poi all’impatto emotivo e alla grande voglia di partecipare di persone troppo spesso dimenticate e nascoste in una società attenta a criteri diversi dalla condivisione e dalla compartecipazione con chi è diverso oppure ha dei problemi.