Zambrini racconta Nino Rota, in jazz!

Foto: la copertina del disco










Zambrini racconta Nino Rota, in jazz!


La sequenza iniziale di Otto e mezzo ci conduce a passo di walzer dritti verso una realtà filmica dai contorni onirici e ludici, dove la nostra comparsa assume le stesse sembianze degli angeli de Il Cielo Sopra Berlino di Wenders, spettatori e ascoltatori attenti di sequenze continue d’immagini e note che Antonio Zambrini ha saputo liricamente reinventare come se davanti ai suoi occhi scorressero i fotogrammi insonorizzati da Rota. Zambrini e il suo trio, come si faceva un tempo con i film muti, hanno ricostruito le sensazioni, le emozioni, le passioni, che la musica di Rota suscita facendolo attraverso quella chiave immaginifica che è il jazz, dove ogni performance appartiene all’invenzione del momento perché la prossima non sarà mai come la precedente. Alla stessa maniera ascoltiamo le “versioni rotiane” reinterpretate per i nostri uditi e perché no, per i nostri occhi, magari provando a rivedere quei film solo con l’audio e le sensazioni che questo disco magnificamente riesce a darci.



Jazz Convention: Antonio Zambrini, facciamo il punto sulla tua carriera discografica aggiungendo il tuo ultimo disco da leader, Plays Nino Rota.


Antonio Zambrini: Dopo le prime collaborazioni negli anni novanta, con Rinaldo Donati, Giorgio Licalzi e Beppe Aliprandi, rintracciabili tutt’ora in cd o in rete, dal 1998 ho potuto pubblicare una serie di cd a mio nome – oggi sono tredici – a partire da Antonia e altre canzoni. La caratteristica di questa serie di lavori, terminati con Musica del 2005, è stata la proposta di una lunga serie di brani originali, che erano, di fatto, lo spunto per ogni nuovo lavoro, e che scrivevo a ondate, in modo piuttosto spontaneo. L’organico e l’intero progetto discografico erano sistematicamente determinati dagli ultimi brani scritti, attività questa in cui ero molto incoraggiato dai riscontri tra colleghi, pubblico, addetti ai lavori, e dal referendum Top jazz del ’98 della rivista Musica Jazz in cui Antonia e altre canzoni mi permise di arrivare secondo nella classifica dei nuovi talenti. Fino a quel momento ero quasi uno sconosciuto. I musicisti con cui condivisi quel lungo periodo furono Tito Mangialajo e Carlo Virzi in primis, poi Roberto Dani, Kyle Gregory, Ferdinando Faraò, Stefano D’Anna, e nell’ultimo disco, Musica (2005) anche Fausto Beccalossi e Giulio Martino.



JC: Dopo la “prima fase” cosa succede?


AZ: Negli anni successivi al 2005 la mia scrittura e le mie pubblicazioni sono state invece legate ad incontri, occasioni e stimoli creatisi nella frequentazione di altri musicisti. Non ero il classico “sideman” ma neppure l’autore integrale delle musiche che erano proposte. Ho lasciato che cose diverse tra loro accadessero e mi guidassero nell’attività creativa. Così sono nati negli ultimi anni i cd con Lee Konitz per Philology, quello con Ron Horton e Ben Allison registrato a New York, fino al più recente lavoro in trio con Eliot Zigmund, e Carmelo Leotta, Long distance, in cui addirittura rileggo alcuni miei brani del primo periodo, immaginando di non essere più il “regista” del suono prodotto, ma di assistere invece alla sua determinazione da parte del collettivo. Tra l’altro questo trio ha all’attivo diversi concerti negli ultimi due anni, talvolta con la partecipazione del sassofonista Pietro Tonolo, e si riunirà nuovamente il prossimo autunno. Un terzo filone della mia vicenda discografica nasce da suggestioni, proposte, vere e proprie “richieste” talvolta fattemi da colleghi e amici. Così è nato il mio lavoro sulla musica dei Procol Harum, quello che ho dedicato ad alcune riletture di Gabriel Faurè, La belle vie, uscito poi a nome della cantante del progetto, Simona Severini, e quest’ultimo in trio, che ci riguarda più da vicino, dedicato a Nino Rota.



JC: Come nasce il progetto su Nino Rota?


AZ: Il lavoro su Nino Rota ha una radice duplice. Da un lato, registrando la serie di cd Philology con Lee Konitz, avevo arrangiato una serie di brani di Rota su proposta di Paolo Piangiarelli, il produttore delle registrazioni cui sono grato per l’opportunità che mi dette in quell’occasione. Con Lee Konitz furono poi realizzati tre cd appunto, con vario materiale e con alcuni miei brani scritti per lui, tra l’altro, mentre il discorso su Nino Rota rimase accantonato. I brani che avevo arrangiato servirono poi quando Cineteca Italiana di Milano, con cui collaboro da molti anni, mi propose di realizzare un concerto dedicato a Federico Fellini, in occasione di una ricorrenza a lui legata. Con Cineteca Italiana ho realizzato moltissime sonorizzazioni al piano solo, improvvisate naturalmente, per le proiezioni dei film muti. In questo caso invece la proposta musicale, che realizzammo in trio, era il centro del programma, mentre sullo schermo venivano proiettati spezzoni del cinema di Fellini. Così concepito il concerto fu molto apprezzato e lo ripresentammo in diverse situazioni, finché l’anno scorso ho deciso che il materiale musicale, i miei arrangiamenti, l’affiatamento del trio, erano pronti per essere registrati. La Cineteca Italiana ha voluto prendere parte coproducendo il cd assieme ad Abeat Records, e fornendo per la copertina e per il libretto del disco alcune bellissime immagini “felliniane” prese dai suoi archivi.



JC: Che criterio hai usato nella scelta dei brani dal repertorio di Nino Rota?


AZ: La scelta dei brani si è in parte discostata dal “baricentro” felliniano, anche perché Rota ha scritto molte cose belle sia per altri registi che per altri scenari rispetto al cinema: musiche per teatro, per balletto (da cui il valzerino, I due timidi), musica da concerto come il preludio per pianoforte che pure ho inserito nel cd… Poi, la quantità di omaggi a Fellini pubblicata da tanti grandi jazzisti mi ha un po’ spinto in questa direzione, e così ho recuperato un tema mai utilizzato per Rocco e i suoi fratelli di Visconti, tema per altro che avevo imparato a suo tempo suonandolo, in forma ovviamente diversa, in un bel cd dell’ amico chitarrista Geppo Spina.



JC: Plays Nino Rota contiene nove tracce. Si apre con Otto e Mezzo e si chiude con Il Padrino. Ci puoi raccontare che versione hai dato dei brani, la scelta degli arrangiamenti e quanto c’è d’improvvisato e di “cinematografico nel disco?


AZ: In generale, negli arrangiamenti ho sempre rispettato alla lettera la melodia originale, mentre dal punto di vista formale ed armonico ho introdotto diverse cose più personali, cercando però di non caricare i brani di cliché jazzistici a tutti i costi, una cosa che in genere vorrei evitare e spero di esserci riuscito. Un ultimo “nesso” rotiano un po’ più accademico, in tutti i sensi, ma soprattutto molto vago e superficiale, è il seguente: mi è capitato di insegnare nel 2011 e 2012 al Conservatorio di Bari, ed ho scoperto, arrivando là il primo giorno, che Nino Rota ne fu direttore per tanti anni… quante cose uno non sa.



JC: Porterai il disco in tourné? Come lo promuoverai?


AZ: Parlare di tournèe sarebbe esagerato, e d’altra parte devo riconoscere che la mia attitudine alla promozione e alla ricerca di spazi in rassegne e festival è totalmente inadeguata. So bene di non essere sufficientemente attivo sotto quest’aspetto della mia professione. E’ un mio limite e ne accetto serenamente le conseguenze. Il concerto del trio (Andrea Di Biase contrabbasso e Antonio Fusco batteria), con questo programma riscuote sempre un apprezzamento notevole e sorprendente: abbiamo appena fatto una piccola serie di date a Lecco, Stresa, Busto Arsizio e Milano. Comunque sono in programma alcuni concerti dopo l’estate. Chissà che tra una richiesta e l’altra – e a quanto pare ce ne sono… – non capiti, più avanti, di suonare anche più lontano.