Slideshow. Stefano Bagnoli.

Foto: da internet










Slideshow. Stefano Bagnoli.


Jazz Convention: Così, a bruciapelo chi è Stefano Bagnoli?


Stefano Bagnoli: Uno spirito adolescente dentro il corpo di un cinquantenne.



JC: Stefano, ci parli del tuo nuovo CD?


SB: Un Altro Viaggio è il secondo disco del mio trio We Kids con Francesco Patti e Giuseppe Cucchiara, due talenti diciottenni siciliani che ho scoperto due anni fa al workshop estivo di Piazza Armerina in Sicilia. Il cd riassume, senza un apparente filo conduttore, il piacere di spaziare jazzisticamente dalla tradizione alle influenze più eterogenee, dagli standards “antichi” (peraltro scelti dai due ragazzi) come Smile di Chaplin, fino a Close to You di Bacharach e Harry Potter di Williams.



JC: Ci racconti ora il primo ricordo che hai della musica?


SB: Ero ragazzino, un LP di Louis Armstrong “rubato” a mio papà e la folgorazione immediata per quella musica.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un batterista?


SB: Nessun motivo razionale, ho cominciato da bambino con la batteria giocattolo e non ho più smesso, neppure nel periodo nel quale, dopo le medie e parallelamente al Conservatorio, frequentai una scuola di grafica diplomandomi. La carriera di disegnatore voleva emergere ma non gliel’ho permesso!!!



JC: Ma hai scelto di diventare un batterista jazz?


SB: Il Jazz è nel sangue della famiglia Bagnoli da un bel po’ di tempo: mio papà Gigi, contrabbassista, e mio zio Carlo, sassofonista, nel 1951 sono stati tra i primi a formare in Italia una Jazz Band (la Milan College Jazz Society) la generazione di noi figli vede poi mio cugino Bruno Chevillon, contrabbassista, l’altro cugino Franco, sassofonista ed infine, seppur in altro versante musicale, la terza generazione ovvero Lorenzo, figlio di mia cugina, bassista Rock e compositore. La mia abortita carriera di disegnatore sarebbe stata un ulteriore prova di talento del dna Bagnoli in quanto mio zio Enrico fu nel dopoguerra, tra i primi fumettisti dell’editore Bonelli (Tex, Martin Mystère, eccetera).



JC: Stefano, cos’è per te il jazz?


SB: La mia linfa, il mio lavoro, la mia passione, il mio divertimento e passatempo senza dimenticare che come Jazz intendo l’essenza dell’innovazione e della curiosità nell’esplorare la vita, lasciarmi contaminare dall’esperienza e dallo scorrere del tempo, imparando giorno per giorno arricchendo me stesso. Pur essendo un musicista jazz non ho preclusioni al piacere di ascoltare tutt’altro tipo di musica convogliando le varie influenze nel mio modo di essere uomo e musicista.



JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?


SB: L’esplorazione e il rinnovamento. Jazz significa la curiosità di affacciarsi verso l’ignoto!! Armstrong negli anni ’20 era un marziano che stravolgeva la storia; grazie a lui e ai capiscuola successivi, il Jazz oggi vive con due personalità distinte ma simbiotiche: la tradizione Swing e BeBop diventati stili classici inviolabili e tutto il resto sino ai giorni nostri, in continuo mutamento al passo coi tempi e le influenze del presente.



JC: Tra i dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?


SB: Ho registrato circa duecento dischi da quando iniziai a suonare (il mio primo LP è del 1981) tuttavia quello al quale sono più affezionato è sempre il prossimo!!



JC: E tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?


SB: Ambassador Satch di Armstrong, Le Quattro Stagioni di Vivaldi, Live at the Showboat di Phil Woods, Aja degli Steely Dan , il Clavicembalo ben Temperato di Bach, Both Sides Now di Joni Mitchell e un album con qualche ?Aria’ di Puccini.



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?


SB: I miei maestri effettivi di strumento sono stati Carlo Sola e Franco Campioni, quelli nella vita, beh, sono stati e sono tuttora tantissimi pertanto non ne nomino alcuni per escluderne altri. Imparo costantemente da chi mi sta vicino compresi i due ragazzi del mio trio sebbene giovanissimi; non importa quanta esperienza di vita hai accumulato anagraficamente, se hai voglia di metterti in discussione impari continuamente da chi ti circonda come da un libro o un film, da un viaggio e anche dallo stare solo con te stesso.



JC: E i batteristi che ti hanno maggiormente influenzato?


SB: Dall’inizio della mia carriera fino ad un certo punto, i più amati sono stati quattro: Attilio Rota (il batterista della band di famiglia) poi Louie Bellson, Daniel Humair e Steve Gadd, quattro fasi della mia vita musicale che hanno contribuito a spostare l’attenzione dalla tradizione al mondo più moderno e creativo. Dopodiché da circa vent’anni, gli idoli si moltiplicano siano essi della storia passata come per le nuove generazioni. Tra gli ultimi Brian Blade è in pole position.



JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?


SB: L’amarcord mi guida a voltarmi indietro e pensare sorridendo alle prime serate da inesperto e alla conseguente tensione incontrollabile che mi coinvolgeva, tensione che negli anni si è tramutata in esperienza ma mai in routine. I progetti che attualmente mi creano soggezione sono quelli che si riuniscono saltuariamente come il gruppo di Miroslav Vitous e il quintetto di Franco Ambrosetti e Randy Brecker, soggezione gestita in positivo poichè essa si traduce in voglia di dare il meglio sempre come fosse la prima volta.



JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?


SB: Sembrerà la classica risposta in “corretto politichese” ma non ne trovo una altrettanto sincera: tutti! Da otto anni suono con Fresu, da ventidue con la famiglia Jannacci (ahimè Enzo ci ha lasciati e proseguo il cammino col trio di Paolo) poi gli Ambrosetti, Mattia Cigalini, Dino Rubino, Giovanni Mazzarino, Renato Sellani, Franco Cerri, Dado Moroni, Paolino DallaPorta, Bebo Ferra, il mio trio We Kids e molti ancora compresi i gruppi con Brecker e Vitous: come potrei amare qualcuno più di altri?



JC: Come vedi la situazione della musica in Italia?


SB: Fosse anche l’ultima cosa che ci rimane, noi italiani siamo invidiati e lodati in campo artistico. Siamo tra i musicisti meglio apprezzati al mondo senza contare che in Italia abbiamo un elevato sistema di iniziative e festival sebbene spesso mal supportati da chi ci dovrebbe governare con lungimiranza e non con l’ottusità che tarpa le ali. Siamo il Paese dove tempo addietro un ministro disse che di arte non si mangia. Quando ti scontri con la presunzione e l’ottusità hai poco da combattere…



JC: E più in generale che dici della cultura in Italia?


SB: Il paradosso eterno di questo Paese: siamo Arte a cielo aperto, la culla della cultura, siamo talento e genio da secoli, siamo istinto e creatività eppure siamo l’ultima ruota del carro come gestione politica e gli zimbelli d’Europa. Non capirò mai che razza di popolo siamo e quanti controsensi ci incolliamo addosso in tutti i campi. Detto questo, pur preoccupato per il futuro, non sono mai negativo e non soccombo allo sconforto.



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


SB: Il cantiere è eternamente aperto! In questi mesi, oltre ad Un altro Viaggio, il mio cd appena uscito, è nato Desertico del Devil Quartet di Fresu, è in arrivo Beyond del nuovo quartetto di Mattia Cigalini, quello del quintetto di Giovanni Mazzarino con Francesco Cafiso e Dino Rubino, quello del quintetto Rewind di due giovani talenti siciliani Giacomo Tantillo e Francesco Patti (lo stesso del mio trio), quello del nuovo trio Songs con Mazzarino e Riccardo Fioravanti, un nuovo progetto in trio con Massimo Colombo e Fioravanti, il nuovo cd di Franco Cerri e Dado Moroni che registreremo a breve, il mio nuovo metodo sulle spazzole, insomma… spero di non rallentare mai!