Foto: Anna Tini Brunozzi
La mia Umbria Jazz.
Umbria Jazz compie quarant’anni e ci sono anch’io, come ospite, nel programma ufficiale. Prima, però, vorrei raccontarvi come io vivo il “grande festival”, da tempo simbolo di Umbria e di jazz nel mondo intero, in tutti questi anni, tanti e bene augurai per un festival, tanti purtroppo per me, allora quando tutto comincia ancora studente liceo. Devo subito confessare un segreto: dal 1972 seguo Umbria Jazz su quotidiani e riviste, in televisione – quando la Rai si decide a trasmettere qualcosa, di solito a notte fonda… – oppure su disco, VHS e ora DVD (ottima l’idea di Repubblica-Espresso di frane una sintesi in sei dischetti), ma di rado riesco a parteciparvi di persona, a essere presente in uno dei mitici concerti che, con il senno di poi, fanno la storia della musica odierne e quella (socioculturale) del nostro Paese. Fin da ragazzo – ma non lo dico per giustificare le mie assenze, semmai per sottolineare un mio limite obiettivo – da sempre preferisco spendere i soldi del biglietto di un concerto per un disco, pensando che in questo modo posso ascoltare la musica in eterno, mentre lo spettacolo resta un’esperienza passeggera; ma voglio contraddirmi e ammeterò che la maggiore intensità sia emotiva sia passionale mi arriva da allora a oggi ogni volta che ascolto un jazzman dal vivo, si tratti di Sonny Rollins, Max Roach, Dave Brubeck, Gerry Mulligan, Anthony Braxton, Keith Jarrett, Lee Konitz, Barney Wilen, Sam Rivers, Elvin Jones, Lester Bowie, Steve Lacy, Martial Solal, Raphael Garrett, Chet Baker, Brad Mehldau, i Return To Forever, i Manhattan Transfer e pochi altri personaggi ormai storicizzati (compresi moltissimi italiani che non nomino perché amici veri) che vedo e sento nel corso degli anni nei festival più svariati.
Fatto sta che io – liceale e poi universitario negli anni Settanta – vivo di riviste (Gong, Muzak, Musica Jazz, Rito), di libri (il Polillo, il Berendt, il Walter Mauro, il Carles/Comolli, il LeRoi Jones) e tantissimi long-playing (compresi i Joker a mille lire, contro le cinquemila del prezzo pieno, con un catalogo ricchissimo che va dal ragtime al bebop, ovvero i fondamenti ancor oggi per me imprescindibili, nonostante il fatto che iniziai con Kind Of Blue, senza dimenticare a discreta collezione paterna, anche di 45 giri, che fin dalle elementari mi ha fatto conoscere Louis Armstrong, Duke Ellington e Ray Conniff).
A volte ai concerti ci vado, soprattutto se sotto casa – a Vercelli – o in zona – a Torino, negli anni di università, sentii un memorabile SOS trio con gli inglesi Surman, Osborne, Skidmore, oppure gli Henry Cow – convinto però dell’eccessivo costo per due ore scarse di “divertimento”: contesto anch’io, assieme agli extraparlamentari, in un paio di occasioni, il rapporto prezzo/qualità che riguarda proprio il jazz in teatro. Sono però affascinato fin dal 1972 dal cartellone di ciò che solo nel 1973 si chiamerà Umbria Jazz: per me, abituato da sempre a storicizzare anche il jazz, vedere accostati i nomi dei Weather Report al Basso-Valdambrini Sextet mi sembra un miracolo. Tuttavia non sarò ai presente all’Umbria Jazz fricchettona dei Seventies: i molti amici che ci vanno sono saccopelisti e io odio le scomodità e quindi dormire nel sacco a pelo; i pochi amici che come e condividono l’esigenza almeno di una camera di pensione e di un pasto in trattoria non amano il jazz. Pazienza! Continuo a sentire i dischi, dal free alla fusion, e leggere le recensioni di Polillo and company.
Dal 1984 entro anch’io nella grande famiglia di Musica Jazz ma la situazione non cambia (nessuno ti invita se sei critico, tranne qualche privilegiati dei grossi quotidiani) e si arriva agli anni Novanta quando ho il piacere e la fortuna di sposare un ragazza, la bella Francesca che ha i genitori residenti in Umbria, nella bellissima Spello. Tento di farmi accreditare come giornalista per la durata del festival estivo, chiedendo solo il pass per i concerti, rinunciando a vitto e alloggio (offertomi invece gentilmente dai miei suoceri). Ma una sgarbatissima telefonata di una signorina dell’ufficio stampa (forse quel giorno è in lite con il fidanzato o il papà o il professore di chimica) mi fa chiudere temporaneamente i rapporti con Umbria Jazz, preferendole altri festival nel Nord Italia. Unica significativa eccezione: i Legends con Eric Clapton a Spello, jazz-blues virtuosissimo ma concerto scomodissimo perchè i giovani anziché sedersi sul morbido prato se ne stanno tutti in piedi a ballicchiare.
Ancora in tempo per Maria Joao nella bomboniera di Spello, ovvero il settecentesco Teatro Subasio e poi per me niente più Umbria Jazz Live – se non, come detto più volte, attraverso dischi, filmati o ora anche rete, in particolare YouTube – anche perchè negli anni Duemila il mese di luglio corrisponde da un lato alle diverse conferenze o presentazioni di miei libri in differenti festival jazz di tutta Italia, dall’altro a seguire concerti o rassegne, sempre grosso modo nel Nord Italia e Isole, in qualità di inviato per Musica Jazz o altre testate.
E ora, nel giro, di pochi mesi l’invito ufficiale, quale conferenziere, sia pur grazie alla FUA, Fondazione Umbra per l’Archiettura, per ben tre mattinate: esperienza che mi consente di seguire la vita di Umbria Jazz a Perugia addirittura per cinque giorni consecutivi. Mi fermerei volentieri sino alla fine per altri sei giorni, ma devo tornare a casa per gli esami in università.
Comunque i cinque giorni mi bastano per capire l’atmosfera e forse il carattere di questa manifestazione, unica nel suo genere in Italia, che per una settimana e mezza, dalla tarda mattinata a notte fonda, riesca a coinvolgere un’intera città e a catalizzare un pubblico eterogeneo ormai da tutta Europa. La formula è risaputa, a livello di cronaca, ma non scontata sul piano organizzativo, nel senso che per poter mantenere certi numeri – la quantità di spettatori, soprattutto – Umbria Jazz deve ormai rispettare la formula collaudata: grandi eventi allo stadio ai limiti della popular music, ma sempre di buon gusto, musica jazz e musica afroamericana facilmente riconoscibili e apprezzabili al Teatro Morlacchi e nelle mille altre occasioni sparse in vicoli, piazze, bar, ristoranti, alberghi, club, giardini.
Ma è soprattutto divertente, almeno per un jazzofilo come me, passeggiare nel pomeriggio per corso Vannucci (lo struscio perugino per eccellenza) e ascoltare a ogni angolo gruppi spontanei oppure guardare le bancarelle ad hoc o le vetrine addobbate con svariati segni jazzistici. Grande assente però il disco: salvo un bel negozio tematico o i cd autoprodotti esposti per terra dai suonatori ambulanti o gli album che mi passano i jazzisti che conosco e ritrovo dopo mesi o anni, sembra ormai che la fruizione del suono riprodotto debba ormai passare quasi unicamente via internet. E dire che la prima edizione di Umbria Jazz porta sul manifesto anche la scritta Mostra Mercato del Disco: sono passati quarant’anni ed evidentemente la tecnologia pragmatica sta sopraffacendo la cultura umanistica.
Per tornare invece alla mia performance di ospite, posso dirmi contento per l’organizzazione delle tre conferenze he trattano via via dei rapporti tra il jazz e l’architettura, la fotografia, le arti visive: merito di tre “ragazze” che a vario titolo contribuiscono alla riuscita del programma: Anna e Francesca Tini Brunozzi, Elena Migliorati. Il pubblico c’è nonostante la contemporanea di libri e dischi ala Libreria Feltrinelli: ed è attento e appassionato, così come i miei interlocutori: il sassofonista Cristiano Arcelli, i Funk Off, il fotografo Michele Cantarelli e Giuliano Giurman artista e autore per ben cinque volte della grafica di Umbria Jazz, poster quarantennale compreso.
Certo mi aspetto, da sempre, il mio uditorio ideale, composto da quei “giovani” tra i 25 e i 35 anni, intellettuali engagé, con una copia del Polillo o di Jazz Magazine sotto braccio, c he ti fanno domande un po’ polemiche e ti chiedono se ti sei o meno imborghesito. Ma quel giovane oggi forse non c’è più: esiste solo nei miei sogni o nel mio passato, guardandomi allo specchio nel 1973. Sono passati quarant’anni e li dimostrano o non li dimostrano? Ma chi o che cosa? Intanto mi godo il ritorno in treno in fondo soddisfatto nella mia prima vera Umbria Jazz, soddisfatto anche per i tanti incontri casuali, per gli amici che mi chiamano per nome, che vengono da Torino, Milano o Roma e che vedo magari una o due volte l’anno, che sono qui come me per la musica e la voglia di condividere qualcosa.
PS. Quasi quasi, nel parlare con foga di me stesso – cosa che faccio di rado – mi dimentico di essere anche un critico e che in questa Umbria Jazz 2013 in tre sere riesco pure a sentire un po’ di musica: inizio allo stadio con Keith Jarrett che fa il prezioso (o lo “stronzo” come sento dire da più parti nell’intervallo): infastidito dalle luce dei telefoni esce di scena per due volte, sembra non voler cominciare, poi suona per tutto i primo tempo al buio, senza maxischermi; nel secondo tempo le luci illuminano lui e Gary Peacock e Jack DeJohnette ma non il suo estro creativo, perchè alla fine il recital mi suona un po’ troppo scolastico, in grado insomma di incantare soprattutto i neofiti e non chi, come me, lo sente da ancor prima che Umbria >Jazz esista e se lo ricorda in televisione proprio a
Il giorno dopo è la volta di John Legend, il giovane soulman che si comporta nel modo opposto, invitando persino una ragazza tra la folla a ballare con lui: ma dietro le americanate si nasconde un vocalist raffinato, in grado di spaziare dal pop al r’n’b, suonando anche lo Steinway, per dividersi fra languide ballad e ritmi dance. E mi piacciono pur i Funk Off per i loro riff scatenati, la giovane Camilla Battaglia alla voce, l’australiana Bobby Jones, forse un po’ sprecata a fare in fondo il piano-bar tutte le sere, come pure Tuck and Patti, che però iterano una consuetudine rodatissima nei loro paesi d’origine.