Paolo Botti Quartet with Betty Gilmore – Slight Imperfection

Paolo Botti Quartet with Betty Gilmore - Slight Imperfection

Caligola Records – 2155 – 2013




Paolo Botti: viola, banjo, dobro, chitarra tenore, tromba, armonica

Betty Gilmore: voce

Dimitri Grechi Espinoza: sax contralto

Tito Mangialajo Rantzer: contrabbasso

Filippo Monico: batteria

Emanuele Parrini: violino





Autentico instrumentarium da solaio del jazz, stando non solo all’arsenale del titolare Paolo Botti, ma in tutto un gusto che qui aleggia, a fare giustizia – ove il termine non appaia eccessivo – dei tempi piuttosto andati, ma nella memoria e nel DNA sempre gloriosi, del bluegrass e della comunicazione rurale del proto-jazz: e questi qui appaiono posti in causa come potente radice stilistica e corrente d’ispirazione non solo filologica, e ancor meno operazione-nostalgia.


Imbastita su un quintetto di attenti partecipanti, l’operazione Slight Imperfection trova un peculiare elemento di ulteriore attenzione nella partecipazione di personalità della poetessa-attivista Betty Gilmore, ormai regolarmente di stanza da noi, e sperimentata testimone del patrimonio blues, cosicché momenti di tangibile densità quale The Storm o Careless Love, oltre che richiamare naturalmente capisaldi di strada alla Nobody’s fault but mine e via dicendo, palesa la pratica spontanea di poetica civile e “politicità del privato” che ha caratterizzato i più autentici alfieri del country-blues. Lo sfaccettato e vivido apporto vocale funge da completamento del solo apparentemente povero, in realtà piuttosto ricercato sound d’insieme, intessuto dal fresco drumming di Filippo Monico e dal basso propulsivo e carnoso di Tito Mangialajo Rantzer, e l’espressività sulle prime asciutta e spedita non lesina però preziosismi, apportati dallo speziato sax alto di Dimitri Grechi Espinosa, ma certo in grande misura dal pittoresco ventaglio strumentale del titolare, che soffia con tangibile entusiasmo nel mantice di una pratica musicale “operaia” nel senso nobile (e raramente considerato) dell’espressione e insieme portatrice di cultura e memorie d’immediata fruizione.


Si reinfonde vita agli umori di palude, agli interminabili pomeriggi assolati delle piantagioni di cotone che funsero da primordiali palcoscenici, ma non solo muffe e polveri di strada nel presente programma, che riesce a virare anche verso ribalte più urbane, come nelle più strutturate Makeba o Mixolydian Dance, e la conclusiva Old Man Blues certamente non solo nel titolo riesce ad esemplificare tutto quell’enorme retaggio che, mai davvero disconosciuto, piuttosto infrequentemente è esplicitamente ripreso al di fuori del circolo stilisticamente specialistico.


Tale ventata di viva e pervasiva memoria, prescindendo da una relativa dis-abitudine all’ascolto, può collocare Slight Imperfection in una dimensione non poi così sui generis, ma la cui molteplicità di tratti convincenti ne fa anzi un lavoro di una certa completezza spettacolare (e ci sentiremmo di consigliarlo a più di un manager di palinsesti concertistici) e il cui valore può esser identificato almeno nell’elaborare senza stravolgimenti un patrimonio forte che, anche nei casi meno consapevoli, rimane humus fondativo e flusso fecondo non solo nell’ormai babelica pratica del jazz.