Foto: La copertina del libro
Andrea Guido, La vera storia di Enzo Jannacci.
Barbera Editore, 2013
Il libro esce ad aprile, a poche settimane dalla morte di Enzo Jannacci, avvenuta il 29 marzo scorso. Il titolo risulta un po’ forzato, “La vera storia…” come se esistessero testimonianze discordanti o opposte su fatti riguardanti il cantautore-medico milanese, a metà strada fra la cronaca e la leggenda. A parte queste considerazioni iniziali, il testo è ricco di documentazione e ben articolato e offre un quadro piuttosto completo della personalità composita dell’autore di Vengo anch’io, la sua canzone di maggior successo in assoluto. Si parte dalle origini, il padre pugliese e la madre lombarda, una abitazione modesta ma dignitosa, per proseguire con una biografia alternata fra le vicende umane e le tappe di una carriera artistica subito in ascesa. Di ogni periodo vengono ricordati gli episodi più significativi, i dischi e le esibizioni, rispetto alla risposta del pubblico e degli addetti ai lavori. Michelone ( Guido Andrea è uno pseudonimo) non rimane a guardare. Non si limita, cioè, a registrare e a riferire il parere di illustri giornalisti su questa o quell’incisione o a verificarne il riscontro popolare. Prende posizione e rivela la sua preferenza per il primo Jannacci, quello delle canzoni dialettali o, comunque, quello più ruspante e genuino, prima della svolta verso una strumentazione più sofisticata con accenti rockeggianti. Se scorriamo l’elenco delle 22 grandi canzoni selezionate, infatti, ben 18 risalgono a prima degli anni ottanta e solo 3 sono state pubblicate negli anni 2000. E qui non mancano le sorprese, con la citazione de El me indiriss, song misconosciuta del 1975, a detta di Paolo Conte “la più bella canzone che ha prodotto”.
Come ha scritto Umberto Fiori, ex Stormy six, “in lui, la canzone d’arte si misura con la canzone normale e si misura sul suo terreno”. Jannacci ha conseguito, cioè, sicuramente una notevole popolarità, mai piegandosi, però, alla tendenza prevalente, alle mode del momento, conservando coerenza e rispetto per la sue idee artistiche. E’ andato dritto per la sua strada, forte di una cultura e di valori intellettuali non di second’ordine, senza concessioni commerciali di sorta.
Buona parte del libro è dedicato ai rapporti fra Jannacci e i personaggi più importanti della scena meneghina dagli anni sessanta in poi, Gaber e Fo su tutti. In particolare si ricorda il sodalizio nei Corsari con quel duo Ja-Ga a suonare un rock and roll casareccio, grezzo, reso al meglio nel brano più famoso della coppia: Una fetta di limone. E poi l’avventura teatrale con un Aspettando Godot, cucito addosso alla follia consapevole di Jannacci e al suo alter ego più razionale, l’amico Giorgio.
Il sodalizio con Dario Fo percorre larga parte dell’excursus del metà saltimbanco e metà dottore. Come non menzionare le traversie di Ho visto un re, a firma di entrambe, bocciata in Rai per il tono “giudicato eccessivamente polemico e iconoclasta” ed esclusa dalla gara di Canzonissima, programma di larghissimo successo a cavallo fra gli anni sessanta e settanta? E questa censura non è stata certamente ben digerita da un cantante attento e disponibile verso l’intrattenimento televisivo come Enzo.
Jannacci è stato anche un superbo interprete di canzoni altrui. E’ rimasta memorabile la sua versione da brividi, lenta e dolente di Via del campo di De Andrè al premio Tenco. Bartali di Paolo Conte dà dei punti all’originale, per quella punta di realismo nervoso che la distingue da una visione più distaccata dal particolare, tipica dell’avvocato astigiano. Arrivederci di Umberto Bindi diventa uno standard jazz, su cui ricamare variazioni sentimentali con quella voce roca che sa esprimere anche emozioni private.
Mina, fra gli altri, si è dedicata al repertorio del cantautore in un intero album, ma stravolgendone il carattere, omologando i pezzi al suo ineguagliabile stile. Tanto di cappello per la classe e la grande voce, ma il senso dell’operazione sfugge. O meglio il disco inciso con questo obiettivo, risulta un’occasione mancata. Hanno lavorato meglio Cochi e Renato o altri cabarettisti disposti a stare al gioco surrealistico e strampalato di alcuni brani del cantautore milanese, non tradendone lo specifico.
Michelone si arrampica, poi, letteralmente sugli specchi per trovare eventuali epigoni. Cita Capossela, Elio e le storie tese e altri nomi meno conosciuti, ma ammette che Jannacci non ha fatto proseliti, scuola. Nessuno gli somiglia veramente. Il figlio Paolo, d’altra parte, ha preso la passione per i suoi strumenti e l’amore per il jazz, come eredità paterna, non certo il suo cotè estetico.
Il rapporto fra Jannacci e il jazz, a questo proposito, è bene inquadrato. Dalla sua collaborazione con Bruno De Filippi, si passa alla maturazione di un modo di suonare il piano vicino a quello di Bud Powell. Il musicista, già dalla fine degli anni cinquanta, è sempre avanti “rispetto ai colleghi jazzisti italiani”. Non poteva essere altrimenti.
Insomma si arriva in fondo al libro e si rimane ancora una volta ammirati da questo artista a tutto tondo: cantautore, musicista, attore, cabarettista e, di lato, medico in attività a tutti gli effetti. Un personaggio poliedrico, unico nella versatilità e nella poetica. Come ha detto Roberto Vecchioni: “Ricordare il suo genio è impossibile.” Guido Michelone ci ha provato, grazie ad una conoscenza diretta di Jannacci, per averne seguito le gesta dagli anni settanta in poi. Per i decenni precedenti ha raccolto notizie e informazioni di un certo livello, andando a cercare le fonti più interessanti con metodo. Si può affermare che il tentativo sia riuscito, anche se si possono aprire ampi spazi di dibattito sulle opzioni operate, riguardo ai dischi osannati e a quelli meno apprezzati. Questo fa parte del gioco. Ogni scelta all’interno di un repertorio così famoso si presta ad eventuali discussioni e critiche.