Foto: Luca Labrini
Casa del Jazz Festival 2013
Roma, Casa del Jazz – 28.6/4.8.2013
Come ogni anno, nel mese di luglio, il suggestivo giardino della Casa del Jazz di Roma fa da splendido scenario ad un festival estivo sempre ricco di appuntamenti interessanti. Il 2 luglio si parte subito con il quartetto di Buster Williams. Figura storica del jazz americano, il contrabbassista non si è mai posto limiti alle frequentazioni musicali, collaborando con tutti i più grandi nomi della scena jazz di quegli anni, figurando addirittura anche in formazioni sinfoniche. In questa tappa lo troviamo nel più classico dei quartetti jazz, accompagnato da musicisti più giovani ma non meno validi: Mark Gross ai sassofoni, Eric Reed al pianoforte e Cindy Blackman alla batteria. Ed è proprio quest’ultima la vera rivelazione della serata, formando con Williams una ritmica varia e robusta dai continui cambi di ritmi. Il fiacco repertorio è però formato prevalentemente da standard interpretati in maniera abbastanza classica, dove sia Gross che Reed non destano particolari impressioni, con la Blackman di contro che pian piano sale in cattedra ritagliandosi alla fine il ruolo di assoluta protagonista.
Atmosfere ben più sperimentali e rischiose nel nuovo progetto del batterista Jeff Ballard Fairgrounds in un trio completato dal pianista armeno Tigran Hamasyan e Reid Anderson, già bassista dei Bud Plus, qui all’elettronica. I tre danno vita ad una musica difficilmente etichettabile, poggiata sugli interventi minimalisti del computer manipolato da Anderson. La quasi assenza di una linea di basso lascia totale libertà di improvvisazione ai tasti di un assai bravo Hamasyan, lodevole nel creare dal nulla sempre nuovi spunti originali in uno stile davvero personale, con Ballard al centro del palco formidabile mattatore in ritmiche e dinamiche che spaziano, all’interno degli stessi brani, dal free alla drum and bass con estrema facilità e naturalezza. I brani proposti si rifanno sia all’avanguardia, con una intensa quanto stravolta Gazzelloni di Eric Dolphy, che alla musica elettronica contemporanea soprattutto nei pezzi originali che evocano sottofondi cinematografici di forte impatto. Un live dal sapore estemporaneo che, se come ammesso dal batterista in sede di presentazione si tratta di una esibizione senza prove alle spalle in questa formazione, avvalora ancora di più la bontà di un progetto coraggioso ma di assoluto valore.
Discorso ben diverso per il trio danese del nostro Stefano Bollani che festeggia quest’anno con una lunga tournée il decennale di questa fortunato trio. Il pianista, tra apparizioni tv, radiofoniche e letterarie sempre lodevoli,ha ormai valicato i confini strettamente jazzistici conquistandosi una meritata fama e notorietà anche verso il grande pubblico, facendo registrare, tra notevoli disagi organizzativi e le incertezze dovute al meteo, un prevedibile tutto esaurito. Con la proverbiale simpatia che lo contraddistingue, il nostro attacca con un brano tirato dal ritmo calypso, supportato con classe dai suoi fedeli compagni. Ma già dal brano successivo inizia con lo scimmiottare Michael Jackson in imitazioni e versi al microfono abbastanza stucchevoli in una Billie Jean che lascia il tempo che trova. E, purtroppo, sarà proprio questo l’andazzo che seguirà per tutto il concerto, fatto di una musica facile dove anche i momenti più seriosi, in cui si cimenta con Parker o altre ballad, appaiono più il pretesto di interventi autoreferenziali di uno spettacolo fin troppo banale. Repertorio che pare scritto per un cabaret di qualità, ideale per un pubblico di piazza eterogeneo, ma fin troppo scontato all’interno di un festival jazz in cui ci si aspetta decisamente di più da un artista di tale portata.
Sempre fedele alla sua musica rimane invece Gianluca Petrella, approdato alla Casa del Jazz a capo della sua Cosmic Band, ideata per celebrare la geniale figura visionaria di Sun Ra. Qui la musica si fa più dura ed impegnativa, ricca di spunti free e improvvisazioni cariche di tensioni. I lunghi brani sono spesso il tappeto ideale di ispirazioni collettive con l’estemporaneità elemento cardine. Il trombonista non si ferma un momento e, come tarantolato, dirige l’ensemble con il gusto e l’autorevolezza dei grandi. I brani non lasciano un momento di respiro in una musica nervosa e tirata, a tratti spigolosa, in cui la potente sezione fiati, formata da ben quattro elementi, assicura la giusta carica, supportata da una ritmica altrettanto ruvida ma estremamente efficace in un organico variopinto ma molto ben assortito, dove anche gli interventi di sintetizzatori e chitarre elettriche caratterizzano bene l’insieme. Applausi ben meritati per una formazione giovane e generosa che non smette di suonare nemmeno raggiunti i camerini per un degno finale di un festival che, tra nomi importanti e giovani talenti, ancora una volta ha vinto la sua scommessa.