Slideshow. Erika Dagnino

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Slideshow. Erika Dagnino.


Jazz Convention: Così, a bruciapelo chi è Erika Dagnino?


Erika Dagnino: Una persona tra la fatica dell’arte e quella di un altro lavoro.



JC: Mi racconta ora il primo ricordo che ha della musica?


ED: Questo comporta ulteriormente il territorio della biografia; così come la memoria è già qualcosa che appartiene al regno del ricostruito. Certamente sul piano effettuale si incontrano in un primo ascolto stili e affinità, emozioni e sfasature rispetto al proprio percepire. In quanto rapporto ci sono per ciascun individuo contatti propri con la musica stessa. Sono cose più spesso che meno totalmente imponderabili. La stessa relazione con la musica è dentro di noi prima ancora dell’attività reale.



JC: Quali sono i motivi che l’hanno spinta a diventare un’artista?


ED: O il senso, sempre in bilico tra il coglimento e l’accadere, è un senso iperesistenziale, aspetto cosmico in relazione al soggetto, quindi certo come individuo di fronte alla ricerca dell’universale e dell’universale senso. O diversamente… E il senso, di fatto pone, inutile tacerlo, il poeta come soggettività, che è proprio quello che al giorno d’oggi a stento sembra essere riconosciuto, dato che la soggettività è al minimo storico; se si deve guardare, applicando ciò all’attualità sembra diffuso un forte grado di incomprensione rispetto a quello che hic et nunc può essere lo stato di un’anima singola. Si è blindati nel minimo comun denominatore sotto la falsa illusione di una collettività di popolo. Di falsa democrazia, che è vera e propria dittatura dell’inesistente: quello che deborda viene cancellato. La soggettività intesa non vuole ribadire nella poesia, nella musica, nelle arti nessun solipsismo. Spostandosi invece sul piano concettuale, ma ancora esistenziale, forse il senso è riconducibile alla grande domanda: il poeta è poeta anche se non scrive? Questione che ho argomentato in diverse sedi edite e non.



JC: E in particolare si considera poetessa, performer, jazzista?


ED: Poeta, ma non solo.



JC: Si considera erede della jazz-poetry inventata dalla beat generation?


ED: L’attuale procedere della mia opera poesia-musica vede il suo primo documento discografico in Cycles, lavoro di matrice beckettiana (Dagnino/Pastor, SLAM UK 2007) dove la parola scritta è riportata sul booklet ma non incisa sul cd, presupponendo quindi la trasmissione della parola come voce interiore passando dalla percezione oculare a quella auditiva, consuonando voce interiore e musica esteriore, nel senso di esteriorizzata nel suono inciso emessa e incisa su cd, interiorizzata. Iter che ha il suo evento in diverse sedi performative, nei concerti che sperimentano la fisicità della parola e la fisicità della musica sul campo. Soprattutto è necessario sempre tenere presente, parlando di questo tipo di registrazioni e di performance, quell’intento comune della fusione che è e la rende un’opera non commentata o integrata da un testo o viceversa dalla musica, ma è parola come musica e musica come fusione della parola. La voce può essere utilizzata in mille circostanze come strumentale. Anche tacendo. Ancora a livello di territorio biografico e bibliografico documentato da pubblicazioni, concerti, registrazioni l’emissione sonora dei versi è presente e udibile, oltre che ovviamente in tutti i concerti dal vivo, nei CD Narcéte registrato in Italia in quartetto con Haslam, Pastor, Waterman e Signs registrato a New York con Moshe, Filiano, Pietaro entrambi editi per l’etichetta inglese SLAM, nel 2012 il primo, nel 2013 il secondo. Nelle rispettive note di copertina, curate dai giornalisti Gennaro Fucile e Marco Buttafuoco, si legge: «Non esiste sudditanza della musica alle parole e tantomeno il contrario. È qui la chiave di questo lavoro: nella felice congiunzione di voci differenti, nella misurata proporzione tra gli interventi»; «Se i versi sono scritti (in italiano e in inglese), il loro vivere nella storia dei singoli brani fa sentire il forte, talora acre, sapore dell’improvvisazione jazzistica.» Mentre descrivendo la mia attività artistica il giornalista Gaetano Menna scrive per Altrescene: «Il suo impegno ci ricorda molto la stagione “on the road” della beat generation, di scrittori come Jack Kerouac, William Burroughs, Allen Ginsberg, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti… E, non a caso, Erika vive la sua irruenza artistica on the road, alla ricerca di incontri, di fusion, di commistioni. È profondamente convinta che l’arte non è solo espressione individuale, ma nasce, si arricchisce, dagli incontri. Non è solismo ma ensemble.».



JC: Quali sono i musicisti con cui ama collaborare?


ED: Gli outsider: un imprevisto che può beffare l’imprevisione.



JC: Perché più all’estero che in Italia?


ED: A New York soprattutto. La comunità di artisti newyorkese nasce spontaneamente piuttosto che artificiosamente; il poeta, l’artista, lo scrittore, il musicista è riconosciuto socialmente, esiste in quanto tale. Dove si nasce certo si possono avere oggettive radici, ma non è detto che queste si trovino nel terreno più fertile. Esiste inevitabilmente e inesorabilmente un luogo deputato alla nascita, ma proprio per questo a livello individuale e molto profondo il senso di estraneità talvolta può essere, o essere percepito come, doppio. Oltre a questo non è negabile che gli eventi si verificano anche per un naturale accadere delle cose a cui la nostra natura e varie ed eventuali ci predispongono e predispongono.



JC: Ma cos’è per lei il jazz?


ED: La spericolatezza. L’inconsolabilità.



JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associa alla musica jazz?


ED: L’inconsolabilità. La spericolatezza.



JC: Tra i dischi che ha fatto ce ne è uno a cui è particolarmente affezionata?


ED: No. Non sussiste di fatto affezione all’opera.



JC: E tra i dischi che ha ascoltato quale porterebbe sull’isola deserta?


ED: Canti Orfici di Dino Campana intonati da Carmelo Bene.



JC: Quali sono stati i suoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita? E gli artisti in genere che l’hanno maggiormente influenzata?


ED: Potrebbero essere elencati diversi riferimenti, ci sono autori a cui si torna spesso o molto spesso, altri che si incrociano una sola volta, almeno per il momento, altri ancora da venire. Ciascuno comunque e sempre come eventuale segnale di un’apertura che prende più di una direzione, che insegna non ad imitare, ma indicando una direzione che va oltre gli stessi esiti. In letteratura, come nelle arti vi sono tappe per così dire obbligate. Alcune vere e proprie esperienze limite. Come possibilità di assorbire, scardinare, dissodare, recuperare e così via. Una sorta di anticamera, di doveroso presupposto, nel senso di non poter prescindere dall’esperienza dell’uno o dell’altro fondamentale maestro, e/o maestra. Quindi figure di riferimento come momenti imprescindibili. Cartelli, varchi, abissi o il loro contrario come indicatori di molteplici direzioni. In generale sono più feroci e meravigliose le esperienze piuttosto che le lezioni. Nel corso del proprio relazionarsi alle lettere, alla musica, all’arte visuale, ciascuno secondo la propria sensibilità vive una lezione o un’esperienza, o un’esperienza e una lezione. La verticalità in alcuni momenti, il dispiegamento orizzontale in altri sono e implicano sempre un grande addensamento del sentimento poetico. Moto per eccellenza il movimento di caduta.



JC: Qual è per lei il momento più bello della sua carriera di musicista?


ED: Certamente alcuni tra gli incontri.



JC: Come vede la situazione della musica in Italia?


ED: Al di là dell’evidenza dei fatti, cioè che vengono posti i soliti sotto i riflettori, qui farei una digressione su rapporto e consonanza di voce, poesia, musica. La contemporaneità sembra segnata dal pregiudizio: la poesia drammatizzata. Esiste e persiste la consueta risposta mediatica che propone e ripropone letture interpretative, addirittura come interpretazione della poesia. Il discorso sulla lettura in quanto tale invece rivendica la lettura in una modalità e presenza, o per meglio dire presenza / assenza dove la lettura è sempre lettura come linea e secondo una certa accezione non è drammatizzazione. Rispetto alla vocalità tra poesia e musica, per quel che riguarda il rapporto con l’ascoltatore in sede performativa, proprio l’antidrammatizzazione può in dimensione effettuale convogliare una reazione vera e propria in chi ascolta. In fondo il pubblico che vuole emozionarsi è il tipico pubblico che vuole emozionarsi secondo il tipo di modello televisivo che purtroppo oggi e da troppo tempo fa lezione, fa storia e soprattutto fa importanza. Si sa da un pezzo che la poesia non deve significare nulla. Se vogliamo anche la musica stessa non deve significare per forza qualcosa. A livello di luogo comune, si pensa quasi sempre alla poesia come qualcosa di emozionante ed emozionabile “a dirsi”, drammatizzante, insomma sentimentale. Posizione sempre discutibile è quella della cosiddetta fusione, parliamo sempre di musica e poesia; tra l’altro è proprio la mancanza di drammatizzazione, per di più banalmente intesa, che può configurarsi come una delle sedi della loro unione. Ma l’antagonismo epocale è quello che è ?



JC: E più in generale della cultura in Italia, anche in rapporto con l’estero?


ED: In prima battuta facendo riferimento a intellettuali celebri potrebbe essere naturale pensare a un passo di una delle tante lettere di Alberto Moravia indirizzate ad Elsa Morante nell’estate del 1951: ?Una volta di più mi sono confermato prima a Roma (dove stavo sempre solo) e poi qui a Capri che con tutta la mia celebrità conosco e sono conosciuto da pochissima gente e che praticamente mi trovo al punto esatto di quando avevo vent’anni. Soltanto allora avevo più sfacciataggine o indifferenza e attaccavo discorso: cosa che oggi non ho più voglia di fare. Naturalmente questo succede soprattutto in Italia dove l’intellettuale non ha alcuna importanza sociale. Se fossi inglese o americano la cosa cambierebbe. O anche a un momento epistolare, tra i molti, di uno dei più grandi intellettuali di tutti i tempi, Pier Paolo Pasolini, (Pasolini che in altra occasione «anche Moravia onorava delle sue illazioni»). L’intervento apparso sul Corriere della Sera l’otto ottobre 1975: «A New York, a Parigi, a Londra, ci sono delinquenti feroci e pericolosi (quasi tutti, toh!, di colore o quasi): ma ospedali, scuole, case di riposo, manicomi, musei, cinema d’essai, funzionano perfettamente. L’unità, l’acculturazione, l’accentramento sono avvenuti in ben altro modo.».



JC: In che modo?


ED: In generale preferisco parlare di “sentimento” di cultura. Si torna qui inevitabilmente a uno dei punti chiave: se non si riconosce l’altro in quanto altro, anima singola, e altra, non può avvenire alcun atto d’amore e questo è imprescindibile al sentimento di cultura. Atto d’amore e sentimento che non significano emotività, ma emozione come moto, come suscitamento di emozione che non è niente né di melodrammatico né di sentimentale. Emozionale non emotivo. Si segnala l’aggettivo emozionale proprio come suscitatore di moti dell’animo che non è discorso legato a sentimentalismo ed emotività. Non è sentimento in quanto sentimentale, del resto se si è sentimentalisti ad oltranza emozioni non se ne provano poi tanto. Non è essere in balia di pure effusioni lirico strappalacrime, ma è strettamente collegato al recupero della razionalità e certo ad essa si affianca. Distinguendo ma anche unificando queste due componenti. Anche in questo caso la parola moto dell’animo ha un significato che può essere disciplinato e contenuto. Per chi guarda in modo superficiale può significare aridità, c’è invece una grossa forma emozionale. Una grossa traccia di emozione. Del resto tutto ciò passa attraverso un’esperienza, che è e rimane sempre frutto di un modo d’essere. È una sorta di dinamismo automatico o automatismo dinamico: se non sussiste non c’è trippa per gatti. Forse all’estero c’è un po’ più trippa per gatti.



JC: Cosa sta progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


ED: La pubblicazione in trio della registrazione dell’opera Sides che ha avuto sede a Brooklyn insieme con due spiccati musicisti dell’area newyorkese: Satoshi Takeishi e Ken Filiano. Concerti a New York in inverno. Un’imminente registrazione radio al programma letterario Poemondo per la RSI in Svizzera. Collaborazione pienamente aperta con due grandissimi e molto outsider musicisti italiani: Stefano Pastor e Claudio Cojaniz.