Swedish Mobilia, soluzioni per un jazz globale.

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Swedish Mobilia, soluzioni per un jazz globale.


Swedish Mobilia non è un gruppo proveniente dalle fredde latitudini scandinave, ma un trio di giovani e intraprendenti musicisti con idee globali nell’uso delle musiche che circondano il jazz. Il concetto di sound afroamericano, per loro, funziona come ancora che trattiene con forza una babele di linguaggi e gestualità contemporanee. Gli Swedish Mobilia, Andrea Bolzoni chitarra, Dario Miranda basso e Daniele Frati batteria), ci raccontano a tre voci, attraverso un’intervista “polifonica”, la loro storia, la loro musica, i progetti e le evoluzioni di un gruppo agganciato al futuro di un sistemico working progress fatto di suoni, emozioni e ambienti mutanti.



Jazz Convention: Raccontateci di voi e delle vostre esperienze musicali?


Andrea Bolzoni: Nel linguaggio che ho sviluppato, e che continuo a sviluppare, si ritrovano molti elementi che hanno fatto parte della mia crescita musicale: il suono aggressivo del rock suonato nel periodo iniziale, il linguaggio jazz approfondito negli anni successivi e la fascinazione per le forme libere, che è più o meno recente. Swedish Mobilia ne è la sintesi perfetta.


Dario Miranda: Ho cominciato con lo studio del pianoforte a 8 anni, per poi passare a 16 anni al basso elettrico. Ho iniziato a suonare in formazioni jazz, blues, rock, insomma, qualsiasi tipo di musica, purchè si suonasse. A 20 anni mi sono iscritto al conservatorio, dove ho avuto la fortuna di studiare con il Maestro Rino Zurzolo, che tuttora reputo un musicista unico e straordinario, ed è stato fondamentale per la mia crescita. Ho aggiunto la musica classica al mio bagaglio culturale, l’uso dell’arco e di altre tecniche prettamente “classiche”, e questo mi è servito moltissimo per crescere e sviluppare uno stile personale, frutto di tutte le mie esperienze. Durante il corso degli anni ho seguito seminari, come Siena Jazz, ma anche laboratori di composizione e musica per immagini. Contemporaneamente ho lavorato con diverse compagnie teatrali, in particolare con PerpetuoMobileTeatro, di cui sono responsabile musicale. Lavorare con gli attori, con il movimento, con delle maschere, con una drammaturgia è davvero stimolante ed eccitante”. Tutte queste esperienze così diverse hanno di sicuro arricchito il mio modo di pensare alla musica, ai suoni, e mi hanno insegnato quanto sia importante ascoltare. Anche con il teatro lavoriamo molto sull’improvvisazione, proprio come con gli Swedish Mobilia. Altre esperienze musicali riguardano la scrittura di colonne sonore per documentari, lavori come Cadenas, Managua Boxing, mi hanno dato la possibilità di partecipare a diversi festival, come il Festival del cinema di Venezia, il festival di Nyon e Bellaria film festival…


Daniele Frati: Ho cominciato suonando il sax tenore nella banda del paese. Qualche anno per capire che la batteria era la mia passione. Così ho iniziato a suonare prendendo qualche lezione sfogando la rabbia adolescenziale in diversi gruppi metal e prog. Nei primi anni universitari ho deciso di studiare seriamente lo strumento e così mi sono avvicinato a, jazz e a tutte le sue sfaccettature. Ho studiato con insegnati della scena milanese e d’oltreoceano, e ascoltando il più vasto repertorio di musica possibile cerco di cogliere insegnamenti e idee. Io suono anche in diverse altre formazioni jazz e di musica improvvisata dal duo al quintetto. Stiamo costruendo un’esperienza interessante con il pianista Alberto Braida e con l’Improbanda, una formazione estesa, che ha l’approccio del laboratorio permanente di ricerca e studio dell’improvvisazione.



JC: Come nasce Swedish Mobilia e il perché del nome.


DM: Swedish Mobilia nasce a Milano, città nella quale mi ero trasferito per seguire un progetto teatrale. Dall’incontro con Daniele poi, il passo è stato breve, mi ha subito coinvolto presentandomi Andrea, ed è nato il trio. Abbiamo iniziato a suonare e registrare, da subito dando un’impronta free molto forte. All’inizio improvvisavamo dandoci un tema, una direzione, che poteva essere un avvenimento come il bucare una gomma in mezzo alla strada, essere chiusi in una stanza al buio e non trovare la maniglia, o immagini come un coniglio in cucina. Una volta abbiamo suonato anche un quadro di Mondrian! Tutte le sedute venivano riascoltate e ne analizzate, parlavamo di quello che funzionava, di quello che invece non ci piaceva della nostro modo di suonare, sia singolo che collettivo. Abbiamo passato un anno lavorando in questo modo, ed è stata una grande palestra. Ci ha dato la possibilità di far crescere il nostro sound.


AB: Il nome Swedish Mobilia nasce un po’ casualmente, trovando tra le pagine del romanzo Fight Club le parole “mobilia svedese”. Da subito ci permise di definire ciò che la nostra musica voleva essere. Vale a dire la possibilità di utilizzare elementi comuni, come nel caso delle varie influenze provenienti dal rock, dal jazz e dalle forme libere, per creare di volta in volta paesaggi (o arredamenti) originali, con il nostro personale marchio di fabbrica.


DM: Si, c’ è un riferimento all’Ikea, un parallelismo, una piccola riflessione sulla globalizzazione: in molte case di diverse nazioni si trovano gli stessi mobili, magari arredati in modo diverso, che sembrano differenti perchè usati in maniera differente. Come le note, che usate in modo diverso posso far nascere musiche totalmente inaspettate. Il nome serve a ricordarci di non perdere mai la nostra originalità. Per quanto gli elementi a disposizione siano gli stessi da secoli, possono essere usati sempre in maniera non banale, non comune, e quindi difficilmente riconoscibili.



JC: Che definizione date alla vostra musica.


AB: Un dialogo tra emozioni che definisce una realtà.


DM: Questa è difficile… Non credo di avere, come tanti, un buon rapporto con le definizioni, e mi salvo citando Miles Davis: esistono due tipi di musica, quella buona e quella cattiva. Lo sforzo che facciamo con gli Swedish è tutto rivolto alla voglia di appartenere alla prima categoria.


DF: Anche per me definire la musica che facciamo é uno sforzo arduo, e sulla scia delle citazioni mi piace ricordare zappa che diceva che parlare di musica é come ballare di architettura. Ecco, sicuramente il vostro parlare di musica é decisamente meno ballabile del mio….



JC: Come gruppo avete prodotto due dischi: cosa c’è di diverso tra il primo e il secondo? Compreso l’ospite, il trombettista Luca Aquino?


AB: Knife, Fork and Spoon ha la forza dell’ingenuità mentre Did you hear something? ha la forza della maturità. Nel primo l’energia era posta nella voglia di comunicare in modo veloce e aggressivo. Il secondo capitolo è invece contraddistinto da una comunicazione più calibrata, più profonda e con più respiri. Lo si può notare anche dai suoni, in Knife, Fork and Spoon più taglienti e diretti, in Did you hear something? più caldi e avvolgenti.


DM: Knife, Fork and Spoon, credo, è stato un bellissimo inizio. Un disco di impatto, aggressivo, a volte duro. Decisamente ipnotico e a tratti inquietante. Ci sono diverse tracce la cui durata va dai 2 ai 4 minuti, a differenza del secondo. Questa è già una piccola differenza, ma sostanziale. Il primo è un disco molto ricco, come la maggior parte dei dischi di esordio, molto energico e crudo, sebbene siamo presenti molte di quelle atmosfere che poi nel secondo disco sono venute più fuori, parlo di quelle atmosfere più psichedeliche, più distese, sebbene il sostrato rimanga sempre nervoso e vibrante. E poi, ovviamente, la presenza di Luca Aquino, del suo lirismo, delle sue doti di improvvisatore, della sua capacità di catturare l’ attenzione o “giocare” per la squadra, per il gruppo. A volte è con noi, dentro la nostra musica, a volte è come se andasse in altre direzioni, rendendo ancora più originale il sound e tutto il disco.



JC: La vostra casa discografica è la Leo Records…


DM: Avevo già lavorato con la Leo Records, era uscito nel 2011 un disco con un altro trio, i Telegraph, formatosi a Benevento, la mia città natale. Con Leo mi sono trovato molto bene, e appena abbiamo avuto tra le mani il lavoro finito con gli Swedish, mi è sembrato naturale chiedere innanzitutto a Leo se aveva voglia di lavorare anche per questo altro progetto. Fortunatamente, per noi, il progetto Swedish Mobilia gli è particolarmente piaciuto.



JC: Che tipo di reazioni avete notato e notate nel pubblico italiano e straniero quando suonate dal vivo la vostra musica?


AB: Di tutti i tipi! Dalla totale indifferenza, alla sorpresa positiva e non, fino al più grande entusiasmo. L’esperienza più bella l’ho vissuta al Bar Chomsky di Riga, dove lo scorso maggio abbiamo suonato insieme al nostro amico sassofonista Stefano Ferrian. Abbiamo suonato per un’ora filata, senza interromperci mai, e il pubblico interagiva con noi, applaudiva, urlava e ballava. Sì, nonostante più in generale non abbia notato grandi differenze tra il pubblico italiano e estero, le risposte migliori per ora le abbiamo avute nei paesi baltici.


DF: A volte dal vivo, in base alla situazione, coinvolgiamo il pubblico facendogli scegliere “scenari” o situazioni più o meno reali/comiche/assurde che noi poi andiamo a suonare. Un po’ come quello che facevamo all’inizio per avere una direzione improvvisata. Questo sicuramente spiazza un po’ lo spettatore, che magari pensa che dietro alla musica più strana o semplice, può nascondersi un’idea molto più vicina o lontana di quello che rievoca l’ascolto di questa stessa musica. All’estero c’è stata una curiosità molto alta nel nostro approccio e qualche spettatore che si trovava per la prima volta ad un concerto di musica improvvisata ne é rimasto sorpreso quando ha scoperto il divertimento nascosto tra le note e i suoni.



JC: La critica nazionale e internazionale come ha accolto i vostri lavori?


DM: La critica ha accolto benissimo il nostro lavoro, cosa che ci ha dato enorme gioia e soddisfazione, dal polacco Free jazz Alchemist al francese Jazz Magazine e al tedesco Bad Alchemy, per arrivari ai “nostrani” Jazzit, con una bellissima recensione di Eugenio Mirti, All About Jazz e ovviamente Jazz Convention, tutti sono rimasti colpiti dal nostro lavoro. Cosa che ci spinge ad andare avanti, continuando a lavorare per migliorare e affinare ancora più il nostro sound, il nostro interplay, la nostra musica.



JC: I vostri nuovi progetti?


DF: Ci hanno invitato a suonare a Tolosa in un festival jazz e questo ci ha dato moltissima soddisfazione e stimoli.


DM: Al momento abbiamo due dischi all’attivo, l’unico progetto è suonare, il più possibile.