ECM Records – ECM 2289 – 2013
Christian Wallumrod:pianoforte, harmonium, piano giocattolo
Eivind Lonning:tromba
Gjermund Larsen:violino, Hardanger, viola
Esper Reinertsen:sax tenore
Tove Toengren:violoncello
Per Oddvar Johansen:batteria
Astro rifulgente di ben oscura luce, il pianista-compositore persiste nel ruolo insieme scomodo e prezioso di un’originalità virtualmente aliena al compromesso.
Seguirne la discografia ormai significativa (al fianco delle produzioni con Sidsel Endresen per Jazzland e delle rischiose, sovversive meditazioni nel quartetto Dans les Arbres) può orientare nell’approcciare la natura delle esplorazioni creative del talentuoso, ma tuttora non agevolmente inquadrabile norvegese: certamente differente dal meno “abitato” e formalmente più distaccato e già distante No Birch, pervaso dalle medesime instabilità di the Zoo is Far e certamente in stretta continuità col precedente Fabula Suite Lugano, il nuovo Outstairs non diserta dalle peculiari strategie wallumrodiane passanti dalla spoliazione del corpo melodico e dalla dissezione dello scheletro ritmico, se vogliamo tentarne un comunque difficile inquadramento, che rendono peculiare il laborioso operato del pianista, facendone un’isola anche nel contesto dell’avant-jazz scandinavo.
Il ritorno in tensione della Toccata di gusto seicentesco innervata di spregiudicato quanto gustoso swing tribale conferiscono a Bunadsbangla prolungato slancio d’ebbrezza creativa, e la sequenza procede, suggestiva e compiutamente estraniante, tra il piccolo viaggio domestico nella melodia onirica e compunta di Folkskiss e la percorrenza a passi irregolari lungo i corridoi sghembi di Beatknit, di ansiogena, crescente glacialità, gli sbiaditi paesaggi sulfurei di Third Try e gli stati fantasmatici giocati tra Hardanger, vibrafono e harmonium in Ornament, fino alle fibrillazioni argute di Outstairs e alle decelerazioni del tempo e alla dissoluzione degli spazi nella solenne semplicità di Exp.
La spettrale riconversione “bandistica” della scabra batteria, le venature laceranti dell’etnico Hardanger e le gittate luminose degli archi, il soffiante impatto del sax tenore, i flussi vibratori delle tromba, la trance febbrile e le contemplazioni pulsanti dello harmonium, lo spirito trasgressivo del piano-giocattolo, non ultime le progressioni ineffabili e la ponderosa libertà di respiro del piano-solo, s’aggregano nella trasversale, inquieta anti-Accademia ulteriormente rimaneggiata del Nostro, che gioca per piccole alchimie caratterizzando per decisa sottrazione e denaturazione curiosa del suono l’originale e volutamente incompiuto puzzle emozionale.
Le collisioni solo in parte incruente che nella cosmogonia sonora di Wallumrod transustanziano il genere, pure vivono di accortezza e atipico scrupolo nei rispetti dei decifrabili modelli, mantenendo alta la guardia dell’ambizione strategica.
Torna dunque l’anti-feeling toccante, pervasivo e pur sempre alieno di un poeta che, non abdicando allo spirito avventuroso e ancor meno alla lungimirante tensione creativa, persegue nel non certo lineare solco dei voluti ermetismi formali (rischiando peraltro di oscurarne i tratti geniali alle attenzioni di un più esteso auditorio) ne fanno molto più che una sofisticata esperienza da riservare agli spiriti curiosi.