Foto: da internet
Slideshow. Andrea Allione.
Guido Michelone ha intervistato Andrea Allione nel giugno scorso per la serie Slideshow di Jazz Convention. Come le altre interviste presenti in Slideshow, guarda ai ricordi e alle intenzioni, ai ricordi e alle speranze: abbiamo voluto pubblicare l’intervista ad Andrea Allione per salutare il chitarrista, scomparso pochi giorni fa, e “ricordare un caro amico e un valente musicista” come aggiunge lo stesso Michelone. Abbiamo voluto mantenerla al presente, come le altre del ciclo. Vi rimandiamo inoltre anche alla recensione del concerto del trio di Andrea Allione a Le Ginestre di Torino dell’aprile 2009, scritta da Lorenza Cattadori.
La Redazione di Jazz Convention
Jazz Convention: Così, a bruciapelo chi è Andrea Allione?
Andrea Allione: Un “ragazzo” del 1960…
JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?
AA: Torna a Surriento nel carillon dei miei genitori: ero veramente piccolo, c’è una foto in cui credo di non avere nemmeno un anno in cui ce l’ho davanti, ricordo lo ascoltavo e guardavo la ballerina…
JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?
AA:
Beh, prima di diventare, se così si può dire, jazzista, direi che fin da bambino ho suonato qualunque cosa mi piacesse. E tuttora suono molti generi differenti (questo ti può creare dei problemi con certi jazzmen e le “chiese” al seguito) riuscivo a trovare le note da solo e fin da allora mi piaceva modificare le melodie. Modificare le melodie, a pensarci bene, lo facevo già cantando e cioè ben prima di suonare la batteria a sei anni: a quattro anni, all’asilo cantavo molto e volentieri, tanto che la suora il primo giorno d’asilo disse a mia madre che avrei fatto il cantante.
JC: Altri episodi-chiave sul tuo passato musicale?
AA: Ricordo uno spettacolo nel 1973 a Pinerolo, con presentatore Mike Bongiorno. Poi, un grande flash rock: Jimi Hendrix e Led Zeppelin e tutti gli altri praticamente. Poi la sala da ballo (attorno al 1976) e poi locali in Svizzera… La professione si diceva: è stato naturale, una conseguenza, se vogliamo una conquista, incontrare, con mia profonda gratitudine, nel campo della musica, il jazz!
JC: A cosa si deve all’epoca la tua nuova “illuminazione”?
AA: Il brano chiave di volta fu Summertime in cui per la prima volta tentai di suonare in modo jazz, perché comunque il jazz ti permette sia di scrivere che di riscrivere suonando, sia di muovere il piano sonoro che di rivoluzionarlo e già dall’approccio; il che da la possibilità di entrare ogni volta in modo diverso nella musica che verrà. A me piace e affascina quando si va dal battuto al non battuto e viceversa. Poi la musica è un linguaggio e, come per le lingue ci sono tantissimi idiomi e dialetti, così nel suonare (play) il jazz è il genere più teoricamente libero tra i linguaggi… per la mia esperienza.
JC: Perché hai scelto proprio la chitarra?
AA:
Sono diventato chitarrista perché in casa, condominio, mio papà – magico! – mi fece trovare una batteria montata in camera mia nel 1966. Dopo tre giorni spuntò dalla porta e convenimmo che, per la situazione, era proprio troppo rumorosa. Per il Natale del 1970 – o forse era il 1971 – la mia madrina mi regalò una chitarra acustica 3/4, il primo pezzo di cui suonai la melodia (intendo dopo tre giorni) era “Raffaella” la sigla con Alberto Lupo e la Carrà…
JC: Ma cos’è per te il jazz?
AA:
Il jazz è come una pianta, un linguaggio che si è evoluto nel tempo, con tante fasi e nuove strade, è cresciuto e si è arricchito costantemente. A me piaceva moltissimo Louis Armstrong, e poi bello quel linguaggio collettivo, poi mi è piaciuto molto Parker, molto più dentro alla mente e al solo, e i Weather Report e, tagliando corto, John Coltrane – che a mio parere togliendo il giro armonico e facendo quei lunghissimi crescendo ha aperto realmente la via al rock – e poi Ornette Coleman, ancora altri limiti trascesi. Insomma il jazz è un atto in tempo reale da inventarsi ogni volta, per me non c’è nulla – per ora – di più divertente, tantissimi e contemporanei pensieri, un uso smodato del cervello, una sensazione di velocità unica mentalmente, un premio per chi ama inventare musica e, comunque, un atto in cui si parte da zero ogni volta.
JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?
AA:
Campi e spazi da trovare: è come se la musica a volte si potesse elevare… si va in alto e se si riesce a starci su parecchio è entusiasmante… e, naturalmente i più svariati sentimenti: quando suono e mi piace, a volte mi scendono le lacrime, semplice emotività forse…
JC: Tra i dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?
AA: Direi Enklisis del Mella & Allione Quartetto, che risale al 1992: ci sono molte idee, un bel sound, è pieno di musica, alcuni brani per me davvero belli. E poi Vostok 9 che, più che un disco, è una raccolta di “cose” che non avevo mai inciso. Anche se pochi li conoscono, fa piacere che più persone ti dicano dopo tanti anni di sentirli ancora e con piacere: questo mi sembra un gran bel complimento!
JC: E tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?
AA: Domandissima!… Mah? non saprei… io l’I-Pod c’è l’ho diretto nel cervello ed è sempre acceso se voglio sentire e segue una sua via: avendo imparato da solo il mio strumento ho sviluppato tantissimo la memoria potrei risuonare praticamente tutto quello che conosco e sento nella testa con alcuni limiti – of course – ma fisici e tecnici, non nel sentire o nell’immaginare la musica o immaginare di sentire, che so, quel vecchio LP a mente… quindi chissà, ma uno solo è difficilissimo.
JC: Almeno uno, è uno sforzo che fanno tutti gli intervistati per Jazz Convention…
Allora, se invece che un’isola fosse Marte, forse porterei un CD con i pezzi di “piano preparato” di John Cage, anche a qualche alieno potrebbero piacere…
JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?
AA: Pur non essendo musicisti, direi, via via: mia mamma, Ilca, ha l’orecchio assoluto, è sempre stata appassionata e registrava con un vecchio Lesa dalla radio; mio papà cantava benissimo – e fischiava non bene… di più! – non ricordo abbia mai interrotto un ascolto o un’esecuzione. Mia nonna materna che cantava bene, e tutta la famiglia di mio papà che nelle feste di Natale cantava, e bene! Direi anche suor Giuseppina che mi insegnò quando avevo quattro anni tantissimi brani: erano brani di chiesa, d’accordo, ma scusate nei Sessanta non c’erano questi nuovi brani da cantautore con quattro accordi; e infine un Don Adriano suonava l’organo stupendamente.
JC: Lasciando stare i religiosi?
AA: Cito anzitutto Giovanni Bivona, il mio maestro di prima elementare che mi diede una grande apertura, una visione delle cose! E poi: Carlo Florio bravissimo chitarrista di Cosenza, per noi ragazzi un’UFO, nell’estate del 1972 ci siamo visti tutti i pomeriggi, io avevo 12 lui 25 anni e un suono magico, credo e spero di avere assorbito un po’ del suo stile. Claudio Morbo, ora direttore d’orchestra che mi ha fatto dei veri doni musicali e fatto capire l’importanza dello studio, ad approfondirlo e imparare a scrivere. Giuseppe Calì anche se per poche lezioni di armonia, però determinanti. Giancarlo Gentile (con cui suono tuttora un mix country-psychedelico-jazz) per la misura, il senso del suono ed estetico. Aldo Mella con cui dal 1974 abbiamo conquistato insieme molto terreno. Marino Guglietti, mio professore all’università, grande ascoltatore, grande testa pensante e capente. E indirettamente Martin Luther King: è bello poter trovare il campo e il coraggio per sognare
JC: E tra i maggiori musicisti, di chi hai seguito consigli o insegnamenti?
AA: C’è Elvin Jones che quando mi ha sentito suonare mi ha abbracciato e baciato e detto “I like your feel, I love you” (da quel giorno ho pensato diversamente su di me). Quindi Paolo Conte e Giulio Capiozzo, Antonio Marangolo e Andrea Ayassot (Ayace): quante cose ho capito di dover capire e che piacere capire che alcune idee le avevo già dentro…
JC: Altri tuoi “riferimenti”?
AA: John Coltrane un’anima e una forza immensa e Ornette Coleman, un uomo dolcissimo e molto coraggioso, tutti dovrebbero vedere un suo concerto e chiedersi delle cose e, nella vita, tutte le persone con cui ho comunicato, nel bene o nel male…
JC: E i chitarristi che ti hanno maggiormente influenzato?
AA: Cronologicamente Franco Cerri, poi Hendrix, Santana, Jimmy Page, Rory Gallagher, poi Wes Montgomery – molto! – e Jim Hall, poi John Scofield, John Abercombie e Bill Frisell… e Bruce Forman che fece nel 1996 un workshop a Trieste: ho suonato per quattro giorni con lui, dopo ero diverso.
JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?
AA: Spero il prossimo concerto… però mi è piaciuto molto quando Annie Girardot a Parigi mi ha fatto i complimenti, “molto”!
JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?
AA: Sono moltissimi per il piacere di suonare, invece per pensare di fare qualcosa più in là, intendo per una proposta che sviluppi un vero suono e un colore preciso, molti meno: amo Andrea Ayassot, anche se non è proprio facile trovare cosa fare insieme, Aldo Mella, Luigi Bonafede, lo adoro alla batteria in trio con Loris Bertot al basso e naturalmente i musicisti dei miei gruppi “Lupalliboz Quartet”, e il trio con Mario Tavella al basso e Riccardo Ruggieri alla batteria.
JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?
AA: Vorrei fissare su cd la musica “edgeless-jazz” che faccio con il mio gruppo Lupalliboz 4et, poi un cd con Loris Bertot e Luigi Bonafede con ospiti, quindi mi piacerebbe andare nuovamente a suonare in giro, anche stare un po’ all’estero. Nel recente passato ho avuto gravi inconvenienti fisici: ora, anche se è quel che è, va meglio e forse potrei reggere. E poi forse mi piacerà anche fare un disco “al limite”…