Jazz Village – SP 9570015 – 2013
Mulatu Astatke: vibrafono, pianoforte, tastiere
James Arben: flauto, oboe, sax tenore, clarinetto
Richard Olatunde Baker: percussioni
John Edwards: contrabbasso, basso elettrico
Alexander Hawkins: piano, tastiere
Byron Wallen: tromba
Danny Keane: tastiere, violoncello
Tom Skinner: batteria
Tesfaye: voce
Indris Hassun: masinko
Yohanes Afwork: washint
Fatoumata Diawara: voce
Messale Asmamow: krar
Si può facilmente partire dal titolo – e, naturalmente dalla lunga carrera e dalla figura musicale di Mulatu Astatke – per comprendere che Sketches of Ethiopia sia un percorso attraverso l’incontro tra matrici africane, jazz, improvvisazione, sonorità provenienti dai quattro angoli del mondo. Un disco vario, aperto a suggestioni davvero molteplici, stratificato: l’utilizzo della parola Sketches nel titolo rimanda all’aristocrazia del jazz e alla ricetta proposta da Miles Davis e Gil Evans per combinare jazz, mondo classico e le suggestioni esotiche che, sul finire degli anni ’50, poteva offrire la Spagna ai musicisti e agli ascoltatori statunitensi.
Va considerato, però, che la prospettiva di Astatke è afrocentrica, in modo profondo, radicato, orgoglioso. Sono africani i ritmi come le sonorità, la “grammatica” delle composizioni e su queste basi si aggiungono gli accenti e le possibilità espressive provenienti dagli altri continenti. In questo senso, il ritratto musicale dell’Etiopiaè tutt’altro che uno schizzo o un colore esotico. La chiave utilizzata da Astatke è quella dell’accoglienza: sul terreno predisposto dai temi e dalle strutture ritmiche – ossessive e ripetute in alcuni casi, leggere e melodiche in altri, sempre trascinanti – trovano posto i riflessi portati da strumenti solitamente presenti nella musica eurocolta, come il violoncello, oppure l’ascolto e la pratica del jazz e le formule più pop della canzone. E le diverse influenze si accostano in una maniera orizzontale: il leader della formazione è assolutamente abile nel non evidenziare e nel non porre una gerarchia di merito o di valore, nel favorire un accostamento sempre mutevole tra le istanze, una pluralità di combinazioni e di letture del materiale.
Un lavoro che per forza di cose e per ragione intima evita ogni definizione di genere. Se la matrice africana è la più evidente, Astatke sfrutta le otto tracce per sfuggire qualunque cliché possa ingabbiare la sua musica e toglierle respiro. E in questo anche la presenza di una formazione articolata in una corposa band residente, gli Step Ahead, e in una altrettanto variegata compagine di ospiti diventa utile per completare il discorso: gli incontri tra strumenti diventano – in modo fluido – dialogo tra personalità e tradizioni in un crogiolo in continuo movimento.