Noè, la locomotiva jazz di Raffaele Casarano

Foto: Flavio&Frank










Noè, la locomotiva jazz di Raffaele Casarano.


Raffaele Casarano, sassofonista salentino, non più promessa ma certezza del jazz italiano, ha pubblicato forse il suo disco migliore, quello più completo, fino ad oggi, almeno. Noè, questo è il titolo, pone al centro del progetto, diremmo del cuore, la melodia, circondata da una cassa armonica fatta d’intuizioni originali, composizioni polifoniche che pescano direttamente dalle culture dei singoli protagonisti di questo cd. Noè è un disco di jazz; Noè è un disco di frontiera, un gozzo calato nell’Adriatico della vita che si lascia trasportare da ogni singola onda, che si affida a ogni singolo alito di vento per imbarcare suoni provenienti da orizzonti senza nome e tempo.




Jazz Convention: Raffaele Casarano, sei un musicista precoce. Raccontaci i tuoi primi passi nel mondo della musica, la tua formazione, le influenze.


Raffaele Casarano: Mi sono innamorato, all’età di sette anni, del suono di Charlie Parker, che non sapevo ovviamente nemmeno chi fosse, ma sarà stata l’atmosfera di quella sera a casa di amici di famiglia che mi ha molto affascinato e rapito, incuriosendomi talmente tanto da chiedere cos’era quella musica in sottofondo mentre tutti eravamo a tavola e un incenso fumante ci avvolgeva. Così, mi hanno detto che era il suono di un sax, e che lui era il più importante musicista di jazz della storia. Da li, la decisione di conoscere meglio quello strumento e la strada piu’ veloce era quella di entrare a far parte della banda del mio paese a Sogliano Cavour in provincia di Lecce. Poi, ho cominciato a fare sul serio e mi sono iscritto al conservatorio sino a conseguire il diploma nel repertorio classico. Contemporaneamente suonavo qua e là, nei bar, nei club, in gruppi di musica tradizionale salentina, balcanica, rock e reggae. Nelle balere facevo piano bar, suonavo il liscio, ma il mio amore restava quella musica, il jazz, che mi ricordava quella gelida serata in casa, un po’ come disse Gerry Mulligan “il jazz da pipa e pantofole”. Sentivo tutta la libertà in quella musica e così è stato e così sarà.



JC: Cosa significa per te la parola jazz? Come la concili con il territorio in cui sei nato e ti muovi?


RC: Vengo da un grande riferimento per me che è Paolo Fresu. Con lui ho capito e continuo a capire, imparare e scoprire sempre cose nuove tutti i giorni. Lui considera il jazz, una parola troppo piccola per definirne il significato, di quanto cioè può raccontare questa musica. Per me è la stessa cosa. Sono nato nel cuore del mediterraneo e si può ben comprendere, quanto il Salento sia terra di passaggio di tantissime culture, etnie e tradizioni. Per questo la musica che scrivo è “impregnata” di tutto ciò. E d’altronde credo che anche il jazz europeo lo sia, guai se così non fosse. Suono jazz perchè non mi rende identificativo di nessun territorio, perchè mi rende libero, e mi fa sentire cittadino del mondo. È chiaro che bisogna sempre tornare da dove si è partiti, e cercare di condividere le proprie esperienze.



JC: Visto che lo hai introdotto, qual è il tuo rapporto con Fresu?


RC: Potrei scrivere un libro. Aspetto solo una proposta! Scherzi a parte, è una storia che forse un regista non riuscirebbe nemmeno a immaginare! Un incontro casuale in una stazione ferroviaria a Parigi nel 2004 e da lì tutto quello che di meglio può succedere a un giovane che aspira a fare il jazzista da grande, proprio come Paolo Fresu! Per me era e lo è tuttora un mito inarrivabile. È una persona umilissima, che pensa sempre a come fare per dare una mano agli altri, in tutti gli ambiti non solo musicali, e in prima persona si mette in discussione sporcandosi le mani. Non per ultima, ma la Tùk Music ne è la prova reale di quanto, in un momento così difficile per la discografia, soprattuto poi quella jazz, sia quasi folle aprire una etichetta dedicata ai giovani musicisti. Per Paolo ho una reverenza assoluta, per tutto quello che ha fatto e che continua a fare per me, credendo nella mia musica, e nei miei progetti, dandomi sempre stimoli a “fare”. Mi sento molto fortunato oggi, ad avere avuto un angelo così importante nella mia vita. Devo moltissimo a lui!.



JC: L’esperienza con Manu Katché?


RC: È stata una delle esperienze più incredibili che mi siano mai accadute a livello internazionale. Manu è un artista solare e di una delicatezza disumana. Quando suona riesce sempre a portare tutta la band dove vuole lui, come è tipico dei grandi leader. All’inizio, non nascondo, ero molto preoccupato. Mi chiedevo se potessi essere all’altezza, ma arrivato davanti a lui, tutto è diventato magicamente emozionante, come se conoscessi quella band da sempre. E poi… c’era il mio amico e compagno di numerosi “viaggi” Luca Aquino, che mi dava tranquillità e coraggio.



JC: Chi sono i Locomotive?


RC: La costruzione di un progetto è fondamentale per me, e grazie a loro ho realizzato un piccolo sogno, quello di avere persone che ti incoraggiano a fare, a crederci sempre di più nelle cose che facciamo, e nel proporre sempre musica, e idee nuove. Questi sono i Locomotive, giovani musicisti che hanno una voglia matta di parlare attraverso la musica. Tutto ciò che viviamo, lo si condivide sempre, dall’inizio alla fine: la musica, i viaggi, la scoperta di luoghi nuovi, il percepire ciò che ci circonda. Questo lo trasferiamo nella nostra musica, come una sorta di rito. Infatti, tutti i brani hanno un significato che ci accomuna, sono storie di “ognuno” che poi si trasformano in note per essere raccontate all’ ascoltatore.



JC: Legend è stato il tuo primo disco da leader.


RC: Si è stato il mio primo disco, un po’ anche “esagerato” forse… Quando nel Conservatorio di Lecce, dove mi ero appena diplomato, si era diffusa la notizia che avrei registrato un disco, mi misero a disposizione un’orchestra sinfonica intera: insomma non capita tutti i giorni un’occasione così, rimasi basito da questa proposta. Immediatamente, anche se non conoscevo Paolo come oggi, mi concessi di chiamarlo e chiedergli un consiglio, visto che mi sembrava un po’ sopra le righe permettermi un’orchestra al primo disco. Lui mi disse: «Pensa alla musica, cosa cambia tra quattro persone e cinquanta? Se a te piace…» E quindi, telefonai subito al direttore del Conservatorio e gli dissi di si. Poi invitai anche Paolo, che fu subito disponibile. E feci festa per cinque giorni di fila.



JC: Dopo è arrivato Replay…


RC: Replay già nel titolo esprimeva quello che non pensavo potesse accadere, cioè fare un secondo disco. E allora quando mi arrivò l’ok della Emarcy-Universal pensai al fatto che stavo ripetendo quella prima e bellissima esperienza in studio di registrazione, e così mi venne in mente di chiamarlo Replay. È stato l’ultimo disco della vecchia formazione dei Locomotive, e lo suonammo in quartetto con qualche ospite come il giovanissimo William Greco al piano, e ripetendo anche lì la partecipazione di Paolo. Vivo tutto, come se fosse sempre l’ultima volta, e allora, volevo in qualche sciocco modo, che quella emozione potessimo condividerla ancora una volta tutti assieme.



JC: Terzo round: Argento, un disco che ti ha dato grande visibilità, prodotto dalla Tuk di Paolo Fresu..


RC: Argento è stato un momento intenso per la mia vita artistica, perchè mi sono ritrovato ad avere la possibilità di registrare per la neonata etichetta di Paolo. Sono stato il primo giovane musicista prodotto dalla Tùk, dopo Songlines del Quintetto di Paolo, e lì mi sono detto: e ora? Mi sono fermato a riflettere sulla strada da prendere. Mi era abbastanza chiaro che dovevo fare un progetto “limite” che non fosse Locomotive o altri progetti già esistenti. E così è stato. In Argento è racchiusa tutta la mia piccola carriera sino a quel momento. Avevo il desiderio di spingermi oltre, molto oltre i confini del jazz stesso. Adoro da sempre Zawinul, e anche molto le sonorità della musica elettro-jazz Norvegese. E mi sono buttato a capofitto dentro me stesso, guardando e raccogliendo tutti i suoni che mi avevano attraversato negli anni, dalla world music, alla musica tradizionale salentina, al rock, alla musica elettronica, al flamenco, al jazz. Volevo mantenere come punto fermo del lavoro la melodia, e invece lavorare molto sulla tessitura armonica, degli stili. È stata una esplosione di colori su una tela.



JC: E infine Noè, sempre con la Tuk.


RC: In Noè ho “riposto le armi”. È un disco introspettivo, silenzioso, ispirato. Ho scritto la musica tutta in una notte, mentre ero prossimo per partire con il quartetto a Correggio Jazz per una residenza e un concerto dove abbiamo registrato secondo noi i provini in quei giorni. Tornato a casa, ho riascoltato tutto il lavoro, e subito ho avuto la convinzione che era quello il disco. Forse questo mi rappresenta più degli altri, perchè è stato suonato e pensato di getto, senza premeditare nulla, senza troppe riflessioni. Credo che quando una cosa avviene d’istinto, è quella giusta. Tùk Music per me è una grande e bella famiglia, dove si discutono e si realizzano le cose e i piccoli sogni, facendoli diventare realtà.



JC: Il disco è in quartetto con una nuova “versione” dei Locomotive.


RC: I Locomotive hanno avuto nel corso dei dieci anni una metamorfosi. Quando è nata la band c’era Ettore Carucci al piano, Alessandro Napolitano alla batteria e Marco Bardoscia al contrabbasso. Bene, da circa tre anni è rimasto solo il mio amico fedele Marco Bardoscia, e sono entrati invece Mirko Signorile al piano che corteggiavo da tempo, e Marcello Nisi alla batteria, con il quale abbiamo un trio dedicato a Coltrane da almeno otto anni. È stato un passaggio obbligato, perchè sentivo la necessità di un suono che potesse rispecchiare di più l’idea del momento, e il lirismo perfetto di Mirko e la ritmica apparentemente disordinata ma intensa di Marcello erano per me il massimo che potevo avere, ed è stato bello quando hanno accettato di entrare nel gruppo.



JC: Solo musicisti pugliesi. C’è del ragionamento dietro questa scelta?


RC: In un certo senso si. Non è però campanilismo, ma sempre lo stesso discorso. Siamo nati nella stessa terra, la stessa strada intrapresa, e siamo cresciuti e continueremo a farlo insieme. L’importante è restare uniti nelle scelte artistiche, e soprattutto non rimanere statici, ma muoversi sempre, e girare tanto. La fortuna del jazz è che parla una lingua universale e tutti possono comprendere. È un punto da dove si parte, non dove arrivare.



JC: Il disco contiene nove brani originali, di cui sei a tuo nome, due firmati da Signorile e uno da Bardoscia. Come nascono queste composizioni? Ce le puoi descrivere brevemente.


RC: In Noè c’è come dicevo, tutto un percorso di storie ancora più intense e passionali. C’è il terremoto in Emilia che abbiamo purtroppo vissuto in una di quelle terribili notti tradotte nel brano di Bardoscia (Gaia); c’è il ricordo di Vittorio Bodini (una mia composizione Ballata per Bodini), una grande penna salentina; c’è un grido per dire “no” alla violenza sulle donne (sempre firmata a mio nome Woman’s drive); e una sorpresa graditissima, cioè la partecipazione Giuliano Sangiorgi, che per la prima volta incide un brano in dialetto salentino. La sua emozionante voce ha reso Noé pieno d’amore.



JC: Infatti, Noè contiene una splendida versione de Lu rusciu de lu mare cantata da Giuliano Sangiorgi. Perché hai deciso di inserirla in un disco di jazz, nonostante sia un classico della tradizione folk salentina.


RC: Con Giuliano c’è un amicizia profonda, e la sua grandezza sta proprio nelle piccolissime cose, nelle cose semplici appunto. Questo brano lo avevamo già provato a suonarlo dal vivo nel 2012 durante l’alba in jazz che organizziamo al Locomotive. Così poi, quando una sera a casa sua, in piena notte, facevo sentire a Giuliano la mia personale interpretazione de Lu rusciu te lu mare suonato dal quartetto, ha detto: «Questo lo canto io!» In un attimo ha spento tutte le luci di casa, si è messo davanti al microfono e “one take” ecco la voce sul brano. Più jazz di così…



JC: Sei l’ideatore e l’organizzatore del Locomotive Jazz Festival. Un bilancio a dieci anni dalla nascita?


RC: Devo molto, anzi moltissimo alla mia famiglia, a mio cugino Alessandro Monteduro (direttore di produzione del festival, nonché percussionista) e al mio papà. È un festival fatto di sorrisi, e gioia di fare le cose; un’organizzazione prevalentemente a conduzione familiare supportata da poche persone che condividono il nostro entusiasmo. Solo da qualche mese abbiamo integrato figure professionali come ufficio stampa, assistente di produzione, e altre figure che ci aiutano nella crescita del festival. Ci siamo resi conto che la macchina organizzativa stava diventando sempre più complessa, e da soli ovviamente non ce la potevamo fare. Fortuna che ci sono tantissimi giovani intorno ai 20-25 anni che ci aiutano come volontari, e alcuni di loro hanno anche intrapreso gli studi per fare quello nella vita, tipo sound engineer, datore luci ecc. In quasi dieci anni, posso solo dire che in una terra intrisa di tradizione come il Salento, il jazz oggi ha un respiro più naturale rispetto a prima, cioè più popolare, come è giusto che sia. Bisogna sempre rispettare la storia delle cose, e soprattutto farne tesoro. È stato un palco quello del Locomotive, che ha ospitato tantissimi artisti nazionali e internazionali, ma la cosa più bella e anche la scommessa più grande, è stata quella di pensare ad un contesto dove i giovani, che avevano, e che ancora oggi hanno difficoltà ad avere un luogo dove presentare la propria musica, potessero avere uno spazio tutto loro fatto di libera espressione artistica nell’incontro con jazzisti già affermati. Quindi, come è accaduto a me nella mia vita, di aver incontrato Fresu, e aver realizzato delle cose, mi piaceva poter estendere agli altri questa possibilità, e oggi possiamo ritenerci più che contenti del risultato raggiunto. Tantissimi sacrifici, dato che i fondi economici sono sempre meno. Per questo abbiamo ideato un progetto che potesse rendere unico il coinvolgimento del pubblico in primis, facendo così nascere una sorta di movimento culturale-artistico, dove avere anche la possibilità di entrare a far parte di una organizzazione e proporre nuove idee, e far si che il pubblico oltre che sotenitore sia anche protagonista. Tutto questo è: Locomotive Card (www.locomotivejazzfestival.it).