Daniel Studer, ovvero l’arte del contrabbasso

Foto: Federica Maria Giulia Nico










Daniel Studer, ovvero l’arte del contrabbasso.


Daniel Studer è un contrabbassista e compositore svizzero di notevole tecnica e capacità d’improvvisazione, che da anni porta avanti progetti d’avanguardia in cui il protagonista è il contrabbasso. Dallo strumento riesce a tirare fuori le più disparate forme sonore utilizzando, oltre alle dita, bacchette, archetti e ogni genere di oggetti che possano dare un risultato ritmico alla sua musica. Studer è un jazzista, ma anche un musicista legato alle avanguardie contemporanee, con diversi interessi nel campo musicale che confluiscono nelle sue composizioni e alimentano le creazioni improvvisate. Chi vuole conoscere a fondo la sua arte si ascolti il disco per solo contrabbasso intitolato Reibungen, oppure i suoi progetti realizzati con formazioni più estese. Altrimenti, nel nostro caso, Zwirn, il suo ultimo disco in duo con il contrabbassista Peter Frey (Kontrabassduo Studer-Frey). Il cd celebra dal vivo quindici anni di progetti e concerti della coppia di contrabbassisti. È stato registrato nel 2011 a Monaco ed è il risultato di una performance totalmente improvvisata. I nomi dei sette brani presenti nel disco non sono altro che delle frontiere terminologiche per definire momenti di creatività senza barriere, ininterrotti flussi di coscienza di joyciana memoria.



Jazz Convention: Daniel Studer, parlaci di te, di come sei diventato musicista e perché hai scelto il contrabbasso.


Daniel Studer: La musica mi è sempre piaciuta molto. A casa c’erano tre dischi che per me erano importanti: uno di Sidney Bechet, Les tablaux d’une exposition suonate da Horrowitz, e L’Opera da tre soldi. Tutte e tre vecchie registrazioni. Ho cominciato studiando musica classica. Suonavo il flauto dolce, il violino e la chitarra. Poi, con il gruppo rock di cui facevo parte, ho cominciato a suonare il basso elettrico. Infine sono passato al contrabbasso suonando jazz, per lo più standard, e musica classica, di cui ho sostenuto gli esami al conservatorio



JC: Hai dei riferimenti riguardanti contrabbassisti del passato e del presente?


DS: Agli inizi erano contrabbassisti come Ray Brown o Sam Jones; poi Scott La Faro, che mi ha insegnato un modo completamente diverso di vedere il contrabbasso. Altri si sono aggiunti negli anni, come Miroslav Vitous, Ron Carter, Dave Holland, e infine Barry Guy e Stefano Scodanibbio. Ogni contrabbassista ha un suo modello. Per quanto mi riguarda sono più di uno quelli che mi hanno influenzato



JC: Che significato ha per te il termine improvvisare e come lo concili con uno strumento come il contrabbasso?


DS: L’improvvisazione è l’espediente più semplice e spontaneo per comunicare musicalmente in un insieme. È un’arte che lascia molto spazio alle tue idee, ma le devi confrontare con gli altri musicisti. Quindi un intreccio tra individuale e collettivo molto stimolante.



JC: Durante la tua carriera hai usato anche l’elettronica?


DS: In vari progetti, soprattutto con il duo di contrabbassi.



JC: Hai suonato con nomi importanti del panorama jazz mondiale e italiano. Che ricordi hai?


DS: Ho sempre preferito i gruppi stabili a dei gruppi creati per l’occasione, anche se quel tipo d’esperienza tante volte è molto stimolante, come per esempio con Barney Kessel, con Bobby Watson o con Evan Parker. Chiaramente le collaborazioni che durano più a lungo lasciano più tracce, come quelle con Giancarlo Schiaffini. Da lui ho potuto imparare come sfruttare sia la scrittura che l’improvvisazione e l’uso di vari stili, insomma un modo più completo di vedere la musica. Poi Sebi Tramontana, Silvia Schiavoni, Riccardo Lay, Danilo Terenzi, Riccardo Fassi, Mario Schiano, Eugenio Colombo, e i miei amici con cui sono “cresciuto” musicalmente, cioè Roberto Stanco e Cristina Majnero. Tornato in Svizzera ho cominciato a suonare, chiaramente, con musicisti svizzeri. Ho subito conosciuto dei musicisti con cui collaboro ancora, come il batterista Dieter Ulrich, il violoncellista Alfred Zimmerlim e il clarinettista Markus Eichenberger. Poi mi stanno a cuore le collaborazioni con persone come Jacques Demierre, Gerry Hemingway oppure Hans Koch.



JC: Sono quindici anni che suoni in coppia con il contrabbassista Peter K. Frey. A tal proposito è appena uscito il vostro nuovo disco Zwirn. Ci puoi raccontare com’è nata questa collaborazione e quanti dischi avete registrato assieme?


DS: Il nostro amico Markus Eichenberger ha creato un’orchestra chiamata Domino in cui suonavamo tutti e due. Così abbiamo deciso di collaborare. Abbiamo messo in piedi un nuovo duo di contrabbassisti dopo quello che ho tenuto in passato con Riccardo Lay. Abbiamo messo in piedi vari progetti, anche istallazioni e tre dischi. Il primo con live electronics e acustico, un cd (stereo) e un dvd (surround). Il secondo disco solo acustico in studio. E adesso il terzo cd dal vivo, registrato a Monaco due anni fa. Per i quindici anni del nostro duo abbiamo anche organizzato un ciclo di quattordici concerti in tutta la svizzera che dura fino a marzo 2014. Sono sette gruppi con ospiti nazionali e internazionali, quali, tra gli altri, John Butcher, Magda Mayas e anche il quartetto con Giancarlo Schiaffini e Hans Koch.



JC: Una definizione della vostra musica? classica, jazz, world, contemporanea….


DS: In questo caso improvvisazione senza vincoli o improvvisazione libera.



JC: Come conciliate le parti scritte con quelle improvvisate?


DS: In questo duo non c’è scrittura. Ma in altri gruppi ci sono a volte pezzi scritti, e ogni voce espressa per estesa; altre volte possono essere frammenti o suggerimenti a parole.



JC: In Zwirn, “strapazzate” i contrabbassi usando svariate tecniche esecutive…


DS: Negli ultimi cinquant’anni della storia della musica gli strumenti hanno subito un’evoluzione grandiosa. Infatti, alla stessa maniera di come eseguiamo la nostra musica anche certe tecniche sono molto personali e fanno parte di quella evoluzione. Adottiamo tecniche tradizionali allargate, per esempio usando il pizzicato o l’arco nei punti meno ortodossi, strofinamenti vari, oppure usando delle preparazioni come bacchette, spazzole e oggetti vari.



JC: Ci puoi commentare brevemente il contenuto di Zwirn?


DS: In questo disco siamo riusciti a trovare un buon equilibrio tra forma e flusso improvvisato. Insistiamo molto di più sul materiale scelto, lavoriamo tanto con le ripetizioni e con le variazioni. A volte, addirittura, il materiale non lo sviluppiamo per diverso tempo. Nella musica improvvisata, ma anche in quella moderna in generale, spesso le informazioni musicali sono tantissime, e certe volte anche troppe. Anche per questo alcuni gruppi d’improvvisazione propongono della musica con materiale sonoro molto scarso. Noi cerchiamo una via di mezzo.



JC: I tuoi progetti non sono solo con Frey. Hai inciso in solo, con Zimmerlin, con il quartetto In Transit, e diversi altri…


DS: Mi piace spaziare tra la libera improvvisazione, quella con elementi jazz, e la musica composta moderna. Nel Trio III-VII-XII con il compositore Mischa Käser (voce, strumenti diversi e oggetti) e Urs Haenggli (diversi flauti dolci, fidel e percussioni), lavoriamo con concetti, improvvisazione e anche con musica scritta per noi da compositori svizzeri. Con Alfred Zimmerlin al violoncello e Harald Kimmig alla viola abbiamo formato un trio d’archi, ad esempio. Cerchiamo di sfruttare questo organico, che sembra più idoneo per la musica classica, in un modo molto nostro, usando varie influenze, varie forme musicali e anche varie tecniche esecutive. Un trio che mi sta molto a cuore. Ultimamente come artist in residence al Moods di Zurigo abbiamo allargato il duo con Peter K Frey aggiungendo Giancarlo Schiaffini al trombone e Hans Koch al clarinetto basso e sax soprano. Questo è diventato un quartetto molto bello. In Transit o anche il trio con Gabriela Friedli al piano e Dieter Ulrich alla batteria, sfruttano anche molti elementi jazzistici. In tutti questi gruppi la ricerca è molto importante.



JC: Tu hai vissuto a Roma per molti anni. Che ricordi hai dell’Italia e della sua scena musicale?


DS: Roma è una città piena di storia e questo mi ha sempre ispirato, moltissimo. Roma significa il cambiamento continuo e stratificato di una storia che ha più di duemila anni. A Roma ho fatto i miei primi passi come professionista: nei primi anni ottanta con la musica jazz, suonando soprattutto standard. Con Riccardo Fassi o Danilo Terenzi si usavano i pezzi in un modo a volte molto libero. Più tardi con Riccardo Lay e Sebi Tramontana sono andato verso la libera improvvisazione usando però anche dei brani, quindi entrando e uscendo da strutture da noi composte. Negli anni novanta suonavo nei Quintetti di Giancarlo Schiaffini. Lì ho imparato veramente molte cose rispetto alla scrittura, agli stili, e alle tecniche. Ho fondato il trio d’archi Coen-Penazzi-Studer, dove ho sfruttato queste esperienze. A Roma ho sempre trovato dei musicisti molto importanti nei vari stili, quali il jazz, l’improvvisazione, la classica e il contemporaneo. Negli anni ottanta c’erano ancora molti festival di musica, di danza e di poesia. Per un ventenne come me un’ispirazione continua. Quando sono andato via, nella metà degli anni novanta, c’era già molta crisi, anche nella cultura. La vita culturale, soprattutto alternativa, non trovava più tanto spazio.