Exploration-Recherche-Improvisation – Blondy & Lê Quan live

Foto: Aldo Del Noce










Exploration-Recherche-Improvisation – Blondy & Lê Quan live.

Palermo, Goethe-Institut (Cantieri Culturali alla Zisa) – 13.12.2013.

Fréderic Blondy: piano preparato

Ninh Lê Quan: grancassa, percussioni


Potremmo ormai parlare di una significativa letteratura, non solo dell’Improvvisazione, ma anche – come nel presente caso – della dualità tastiera-tamburi, non limitata ai vari duo pianoforte-batteria in jazz, ma estesa anche a revisioni del piano ed elementi sganciati dalla batteria o dall’orchestra, in cui entrambi gli strumenti sono esplorati e agiti in primis nelle loro meccaniche percussive e nelle loro espressioni vibranti.


All’interno del Festival Il Suono dei Soli, ciclo dedicato a Giacinto Scelsi (attualmente in corso a Palermo sotto l’egida dell’Associazione Curva Minore) si colloca l’evento in oggetto «in modo autonomo, o per certi versi anche automatico, insieme a due musicisti che meglio inverano un possibile superamento storico del rapporto tra pensiero notato e pensiero “audio-tattile”» secondo il sobrio programma di sala, che conferisce lustro ulteriore ad una stagione dal séguito soddisfacente e da proposte d’innegabile spessore.


Trattiamo del pianista francese Fréderic Blondy e del percussionista franco-vietnamita Ninh Lê Quan, toccati da ormai lunga collaborazione e dualità, fissata oltre dieci anni orsono anche nell’incisione Exaltatio utriusque mundi; la coppia, alla primissima esperienza live nel nostro Paese (ed in particolare in Sicilia, dove effettueranno un lungo primo soggiorno conoscitivo), si era già misurata con alcuni nostri Jazzmen, tra cui il sassofonista-improvvisatore Gianni Gebbia, militando anche in altri filoni del jazz, mantenendo un elevato interesse verso il mondo classico-contemporaneo ma più in generale verso le forme e le istanze della sperimentazione avanzata.


Autentica officina dell’action-playing, la performance non tardava a palesare l’eviscerazione radicale del “corpo” degli strumenti in campo, “agiti” e riesposti con modalità sovversive: il ricorso ad additivi manuali (archetti, lattine, pigne, cimbali, ruote dentate, filamenti) esitava in una progressione costruttiva e stratificata segnata da concitazioni emotive in un clima timbrico post-industriale, certamente non emotivamente neutro, anzi toccante fino ad aperte quote ansiogene, superate catarticamente da grandi tensioni contemplative, prevalendo infine e comunque la non nuova considerazione di come la più nuda acusticità possa specchiarsi negli esiti delle più ardite frange dell’elettronica. Il bis, richiesto con convinzione, veniva giocato su un approccio formale differente, anche in questo caso a schema libero e non predeterminato, con le corde del pianoforte ad intessere sulle prime un evanescente macramè, via via più intricato, mentre alle percussioni venivano impresse energie di alquanto eolica levità: ugualmente le due simbiotiche ispirazioni procedevano verso il disegno di visualizzabile impianto costruttivo


Veniva sottolineata la filiazione rispettivamente scelsiana e cageana dei due sodali in scena: l’approccio speculativo e il diverso investimento di feeling conferivano comunque assortito fondamento a quella speciale intesa che è alla base di una convincente composizione istantanea.


Un pubblico raccolto (come i rigori dell’incombente inverno autorizzavano) appariva ben sintonizzato sulle due elaborate live-performances, completate da un interessante incontro con gli artisti transalpini da cui, a parte la palese preparazione dei due, emergeva come non si dia nulla tuttora per scontato, e ancor meno pacificato, nei rapporti tra l’audience e della musica del grande filone d’improvvisazione pura.



Jazz Convention: Vorreste parlarci del vostro approccio all’improvvisazione, con riguardo alle fenomenologie contemporanee?


Ninh Lê Quan: È impressionante considerare quanta vastità vi sia nei linguaggi della musica; dai tamburi coreani ai Gamelan balinesi, fino, perché no, alla bombarda bretone: molte di queste musiche dichiarano una finalità e un valore, altre per niente – io considero la musica che noi facciamo solo “una fra le tante” musiche esistenti. Il mio approccio alla performance è, direi, piuttosto semplice: io mi pongo in relazione al mio strumento, e mi sintonizzo istantaneamente, progressivamente, in uno scambio continuo con il mezzo ma anche con l’ambiente di collocazione. Sono devoto e grato alla grande lezione di John Cage, che enfatizzava al massimo il valore dell’ascolto: già nella mia improvvisazione non mi limito a concentrarlo sul mio strumento, ma nel determinarsi dell’evento sonoro tengo conto dell’importanza dell’ambiente, potrei porre in causa l’interazione con le mura, la moquette della sala. Ogni momento è diverso da un altro, direi che ogni performance è una circostanza a sé, e speciale: è in definitiva la “circostanza” a prendere vita per il tramite nostro e degli strumenti.


Fréderic Blondy: Io sono un praticante di piano jazz, sono particolarmente investito nei più nuovi linguaggi del classico-contemporaneo e, naturalmente, nell’improvvisazione! In questa c’è da parte mia tutto un grande studio, una ricerca: ma per quanto mi riguarda, in rapporto allo strumento, ciò che più mi preme è metterlo in sollecitazione, in vibrazione. Io lo paragono a porre un veicolo per strada, e quando tutto s’avvia, il veicolo perde importanza, ed è la Musica a mettersi in moto! Durante la performance è la nostra interazione a dar forma al materiale, a per mettere il determinarsi di un’architettura del cui continuo sviluppo possiamo assistere istantaneamente.



JC: L’improvvisazione e l’avanguardia in musica, che dal dopoguerra hanno costituito anche aperte e radicali provocazioni, sembrano oggi aver conquistato una parte del pubblico, che vi mostra più agio e confidenza. Si deve ciò più alla letteratura ormai vasta nell’àmbito e/o ad un’accresciuta maturità culturale degli uditori?


FB: Quanto ad una “letteratura dell’improvvisazione”, secondo me trascuriamo che ve ne sono già di assai più vaste ed antiche, parliamo ad esempio del raffronto con la tradizione improvvisativa nella musica indiana; la maggior diffusione di questo materiale può legittimare, magari, una maggior “confidenza” con l’improvvisazione, ma io continuo ad osservare nel pubblico un atteggiamento reazionario, come dire… Osservo la suddivisione dell’attenzione del pubblico del jazz, ad esempio, o della musica barocca, o così pure della stessa musica improvvisata, verso il genere d’orientamento, e tutto ciò in un modo che mi sembra settario; questo non mi autorizza a parlare di una maggior confidenza verso l’improvvisazione.


NLQ: Non sarei così certo sulla “abitudine o gradimento” del pubblico verso la musica improvvisata: ad esempio, una performance come la nostra non può attendersi l’afflusso di un pubblico in massa. D’altra parte, non si deve ignorare che già nello stesso àmbito dell’improvvisazione si possono distinguere diverse, molteplici tendenze, alcune tese ad ottenere una forma ed un’estetica, altre vanno in direzioni anche opposte. Il XX secolo ha “abituato” ma più probabilmente sottoposto il pubblico a tutta una massa di provocazioni, proposte spiazzanti e novità. Credo che il pubblico più vicino all’improvvisazione e alle musiche correlate sia quello più disposto alla sorpresa – ancora meglio, quello con maggiore predisposizione a sorprendersi della sorpresa!