ECM Records – ECM 2326 – 2013
Craig Taborn: pianoforte
Thomas Morgan: contrabbasso
Gerald Cleaver: batteria
Non si può dire che non investa sulla revisione della forma, sia pure con intelligente misura, Craig Taborn, presenza ormai imprescindibile del pianismo “open”, né si vorrà omettere come “stratificazione” e “intuizione” appaiano due dichiarati caratteri, tra quelli fondativi di questa esperienza, particolarmente sensibile al valore dell’improvvisazione e alle contraddizioni che esso può comportare: “Se intendi che tutti possano suonare liberamente, allora non sei davvero un compositore, se però indichi troppo strettamente l’approccio stilistico, non potrai allora sfruttare appieno il potenziale dei musicisti” secondo le premesse, discorsivamente esposte dal pianista.
Non si vuole, peraltro, passare sotto silenzio l’impressione che l’intera imbastitura di Chants, per le introverse ambizioni e le questioni estetiche sollevati senza clamore, travalichi i confini (ormai assai dilatati, peraltro) dei “denominatori comuni” non soltanto estetici sottesi alla produzione della label ECM, volgendo nella direzione di una musicalità sottilmente più trasversale, e infine nemmeno si può minimizzare che qui si abbia il debutto discografico del Craig Taborn Trio, il cui titolare si è investito per oltre otto anni nella scrittura per tracciare un proprio solco nel variamente già arato e fertilmente trattato campo del piano-trio, e qualche spunto d’interesse si riscontrerà nel ritrovarvi la sezione ritmica operante anche nel Thomasz Stanko New York Quartet, ad avvalorare la criticità e l’ampiezza di ruolo giocata dai passaggi su questa odierna scena.
Non passerà inavvertita l’atipica apertura su ben due grandi momenti in successione d’incontenibile quanto ineffabile dinamismo (Saints, Beat the Grounds), che trovano propulsione in una grande, fitta circolarità a-melodica, scandita dalla mano sinistra in libera asimmetria con i fluidificanti e rapidi indugi delle mano destra d’insolita fisionomia solistica, chiusi entrambi dall’imperfetta catarsi di un incompiuto “final-cut”; tale impulsivo dinamismo dilaga e si stempera sul bacino ad ampia superficie e sulla tempistica sospesa dell’elegante In Chant, che mai perviene a soluzioni drammatiche, incarnate invece dalle trasparenti tensioni di Hot Blood.
Non si negherà grande cantabilità e strutturazione importante alla centrale All true Night/Future perfect, ove meglio, e non solo per maggior estensione, s’apprezza l’investimento compositivo e la tessitura narrativa, transitando nella seconda metà dell’album segnata dai bagliori distanti di Cracking Hearts per stemperarsi ulteriormente negli incanti atemporali e senza approdo di Silver Ghosts e Silver Days of Love, e riguadagnare controllata drammaticità nell’inquieta Speak the Name, segnata dall’incalzare degli iterativi, ipnotici vortici della tastiera.
Non sfuggono, le trame generali di Chants, a più d’un sospetto d’astrattezza, non eccedendo mai il soundscape in prodigalità melodiche: sorta di “buco nero” della sospensione armonica, il lavoro valorizza la fisionomia dell’autore quale architetto lirico alieno da stucchi e barocchismi, abile ad imbastire decantazioni sottili e liberare effervescenze trans-melodiche, la cui azione si svolge e dichiara sui due versanti della tastiera, calzando l’armatura ritmica alquanto conformata dall’impeccabile, versatile trama della batteria e dalle disposizioni misteriche e l’oratoria composta del contrabbasso.
Non disconoscibile da un’audience ampia, coltivata e progettualmente “trendy”, la generazione dei Moran, degli Shipp e del qui presente Taborn – ma la lista è in realtà più estesa e multietnica – trova anche in quest’occasione conferma del positivo investimento sulla ricerca e la riguardosa revisione dell’equilibrio tra le parti: la letteratura trans-gender, non solo in riferimento alle qui evidenti reinterpretazioni del piano-trio, incorpora in Chants un nuovo capitolo da riconsiderare alla medio-lunga distanza – come in tutta onestà e sostanza non si vorrà ignorare.