Baron/Boschi/Bonini – ACRE

Baron/Boschi/Bonini - ACRE

Megasound – MSM 026 – 2014




Ermanno Baron: batteria, oggetti

Ginomaria Boschi: chitarre, effetti, voce

Marco “Ubik” Bonini: laptop, theremin, nastri






Almeno la curiosità circa la pertinenza di “nomenclatura” degli titoli – assortiti e fantasiosi – ci induce a ragionare preliminarmente se “nomina sint consequentiae rerum” o piuttosto viceversa.


Senza ironie, cosa abbia generato o cosa si celi lungo le lunghezze di L’avvalse il sovvenir, Il pasto crudo, Delle mute crepe e certamente Merry go round è gradualmente svelato da un ascolto abilmente condotto tra freschezza e citazioni, effettistica e viva presenza strumentale, progettualità e aleatorietà, performing cibernetico e progressioni emotive.


Appunto, la robotica da musica-giocattolo e le schegge “radiofoniche” di Merry go round, l’affondamento (psico)analitico entro le camere del sogno e della memoria profonda ed ancestrale (L’assalse il sovvenir), le concitazioni metropolitane e futuribili de Il pasto crudo, il “pacificato” e notturno lirismo dell’epilogo in Delle mute crepe corrispondono – è così è per le eterogenee tracks – a quadri distinti per impatto sonoro e coinvolgimento dell’attenzione nonché della coscienza: il Funk spettrale e spiritato animato dalle tastiere, la sospesa circolarità e i leganti lessicali del loop, il patchwork sonoro imbastito tra nastri e live-electronics, e ancorato dalla progettualità disciplinata degli schemi ritmici della batteria, che pure discende in campo per libere incisività percussive, lo speciale colore infuso dalle sognanti chitarre, possono essere identificati come i numerosi corrispettivi dell’equilibrio dinamico che il trio azzarda nell’incontro tra la vita artificiale delle campionature e del suono sintetico con le identità e le impulsività messe in campo e in gioco nell’arena di Acre.


“Acredine” invece non v’è – o non sembra riscontrarsi – al di là della vivida crudezza di alcuni aspetti del sound, fatta salva la non dichiarata consapevolezza di una qualche perdita d’umanità nel gioco dell’elettroacustica, verso cui l’album non funge da denuncia né da antidoto, aggirando piuttosto la questione, variamente esposta e agita dalle Avanguardie dei trascorsi decenni, con una propria e propositiva sintesi.


Ai blocchi di partenza del 2014 (quantunque la registrazione risalga ad almeno due anni prima), il giovane (e titolato) “trio di improvvisazione che lavora su forme, figure e luoghi della musica e dell’ascolto”, ricercando punti di fusione tra “l’estemporaneità propria della musica jazz e l’imprevedibilità degli strumenti digitali”, inscatola la dinamica ipotesi di lavoro entro una confezione dichiaratamente rétro la cui grafica richiama molto le “elettronicherie” degli anni ’70, ma rispetto a quell’epoca ha il vantaggio del superamento dell’impasse primaria della ricerca innovativa (che pure è stata fattivamente praticata dai tre).


Aperto all’invettiva e alle collisioni critiche delle masse sonore, scansando però nichilismi ed estremizzazioni apocalittiche, l’intelligente zapping del trio nel rielaborare l’atmosfera acustica post-moderna e contemporanea lascia spunti aperti e invita all’interattività l’ascoltatore: “la fonte dei suoni resta sempre dubbia e incerta quando si cerca di isolarla dal “gomitolo” dentro cui è intrecciata” recita un ponderato aforisma-guida del lavoro, e il Sound complesso ma insieme, per varie ed ineffabili vie, “naturale e vivo” della formazione alza la posta nella sfida alla partecipazione, nel segno dell’impegno, al gioco della libera Creazione.