Foto: Andrea Buccella
Monk and The Time Machine. Franco D’Andrea Sextet live @ Parco della Musica
Roma, Auditorium Parco della Musica – 28.1.2014
Franco D’Andrea: pianoforte
Andrea Ayassot: sax alto, sax soprano
Daniele D’Agaro: clarinetto
Mauro Ottolini: trombone
Aldo Mella: contrabbasso
Zeno De Rossi: batteria
Dopo Traditions and Clusters e Today Franco D’Andrea torna sulla scena con un nuovo progetto: Monk and the Time Machine. I compagni di viaggio sono quelli degli ultimi lavori, fidati, affidabili oltre che dei grandi e raffinati solisti. Come mi dice lui stesso dopo il concerto, quando gli chiedo di autografarmi il disco: «La musica di Monk è incredibile perché è al tempo stesso piena di elementi tradizionali, come il blues e il gospel ma allo stesso tempo era già avanti anni luce per i suoi tempi, con frasi interrotte, tempi sghembi, silenzi, il non detto e il misterioso che c’è nella sua poetica».
Le luci si spengono e il piano comincia a suonare. Ogni tanto D’Andrea si blocca e guarda il piano, proprio come faceva Thelonious Monk, ma lo sguardo del pianista meranese è diverso, lui sa già quale sarà la prossima nota, il prossimo tasto; mentre Monk a volte sembrava smarrito e, guidato solo dall’istinto, muoveva le sue dita sulla tastiera.
Il secondo brano comincia con un assolo alla batteria di Zeno De Rossi che dà vita ad un linguaggio quasi free ma non si tratta di un free jazz alla Ornette Coleman, è un sound più ragionato e governato. È la prima traccia che si trova nell’album, vale a dire Into the Mystery-Deep Riff. Irrompono i fiati che accompagnano De Rossi e il dialogo tra trombone e clarinetto si fa intenso e ricco di scambi. D’Andrea procede con un lavoro di scomposizione per sottrazione, arrivando a quella che da molti è considerata l’essenza di Monk: l’equilibrio tra pause, silenzi e poche note martellate sul piano.
Il clarinetto ed il sax introducono I mean you con le dita di D’Agaro che schioccano sul legno del clarinetto creando una leggerissima percussione. D’Andrea fonde insieme al precedente brano anche Monk’s W.T.L.-Locomotive. Il sound è avvolgente con i fiati che si alternano, disegnando melodie oblique mentre la batteria alterna le spazzole sul charleston ad un mood più dinamico e muscolare. Sul finire del brano si inserisce il piano conquistando la scena.
Nel mezzo ci sono Misterioso-Monk’s W.T.L.-Bright Mississipi con un assolo di trombone ricco di spunti e con un buon colore e Monodic-Well You needn’t nel quale le corde del contrabbasso vengono quasi pennate come una chitarra.
Ci avviamo verso la fine con Blue Monk-Brake Sake-Naif-Un gioco. Un caos ordinato comincia poco a poco a prendere forma, enunciando i temi principali di Monk ai quali si aggiunge anche il punto di vista di D’Andrea. Tutto culmina in un’esplosione di suono condita con un tocco di Dixieland anni 20-30.
Si chiude con Coming on the Hudson proprio come nel disco. Piano solo, melodia e destrutturazione e di nuovo il tema principale, ritmo, swing, be bop, Monk.
Non è un concerto facile da seguire, sicuramente non per chi non conosce bene Monk e D’Andrea. Come in ogni lavoro del pianista italiano si cerca di andare oltre, di sperimentare, di ricercare un nuovo modo di vedere le cose e la musica. Come nella scultura D’Andrea cerca sempre di mostrarci un lato diverso della stessa cosa. Ciò che differenzia Monk da D’Andrea, secondo chi scrive, è che Monk spesso seguiva solo sé stesso ed erano gli altri a dover andargli dietro, D’Andrea invece si dimostra sempre aperto ad accogliere l’ascoltatore e a guidarlo anche nei suoi voli più estremi.
Mi piace fare un paragone, forse azzardato e forse non gradito ai due artisti che andrò a citare. Franco D’Andrea è il Toni Servillo del jazz. Come in ogni film Servillo riesce ad essere diverso, a dare quella marcia in più e quell’interpretazione che solo lui sa dare a quel ruolo allo stesso modo D’Andrea riesce in ogni suo lavoro ad essere innovativo, sperimentatore, pieno di linfa, di energia da trasmettere e con qualcosa di nuovo da dire.