Luca Bragalini, Storie poco standard

Foto: la copertina del libro










Luca Bragalini, Storie poco standard.

EDT, Risonanze – 2013

Dodici standard e una bonus track diventano il presupposto per un discorso ampio e qualificato intorno al jazz. Luca Bragalini sceglie infatti di ragionare intorno alle vicende collegate alle storie di brani celebri come Over the Rainbow, I’ve grown accustomated to your face, White Christmas, Someday my prince will come, Ev’rytime we say good bye, Georgia On My Mind, My Favorite Things, Little Girl Blue, Autumn Leaves, Liza, How Long Has This Been Going On, Nature Boy: brani interpretati e rimaneggiati dai jazzisti, resi patrimonio universale del linguaggio dall’intervento successivo alla composizione e dalla condivisione scaturita da jam session e scelte di palco. Bragalini, pur non abbandonando del tutto la veste del musicologo, si sofferma sulle storie legate alla nascita delle melodie e dei testi, alle circostanze contingenti e profonde che intrinsecamente hanno fatto si che quei brani si imponessero all’attenzione di musicisti abili e intenzionati ad una esecuzione non necessariamente conforme.


Alcune di queste storie sono state pubblicate su Jazzit nel corso degli anni. I lettori che hanno avuto un contatto con i testi apparsi sulla rivista hanno già un quadro relativamente chiaro del modus operandi dell’autore. Una ricerca minuziosa da detective meticoloso utile a tratteggiare un filo rosso tra i vari tasselli che compongono la canzone, l’importanza del testo e i riferimenti storici e culturali che i vari compositori hanno fatto convergere nella costruzione dei brani, gli accenti colti e le strizzatine d’occhio al pubblico. Bisogna tenere conto che in massima parte si tratta di canzoni provenienti da commedie musicali rappresentate a Broadway nella prima parte del secolo scorso: composizioni efficaci e toccate dalla mano felice di artisti di altissimo livello alle prese con un lavoro spesso veloce, forzato dalle esigenze artistiche della trama e quelle più prosaiche degli impresari. In particolare, Bragalini mette in risalto la trasformazione seguita dalla componente testuale dei temi: la strofa, più recitativa, è stata gioco forza quasi sempre tagliata dall’intervento degli improvvisatori, più inclini a sfruttare le formule utilizzate nei ritornelli. Una operazione mitigata dall’attitudine presente nell’esecutore di dover conoscere il testo e possibilmente a lasciarne percepire il senso e l’atmosfera, ma nondimeno percorsa sin dalle prime esecuzioni avvenute spesso in concomitanza con le pubblicazioni a stampa degli spartiti e con le prime uscite in teatro.


Nel testo non mancano elementi di analisi musicali e l’attenzione certosina nel dare conto delle tantissime interpretazioni dei singoli brani. Il centro del discorso di Bragalini, però, è utilizzare ciascuno degli standard in questione per riconsegnare un quadro della storia del jazz. Un’operazione che prende le mosse dal particolare, dagli elementi più minuti, dai singoli temi e dalle vicende di quel particolare momento, per disegnare le coordinate precise all’interno delle quali situare il rapporto del jazz con il mondo esterno e con la storia del novecento, il rapporto dei musicisti con la scena jazzistica, il razzismo, l’industria discografica e cinematografica. Gli standard usati come biglietto di ingresso in un percorso che unisce storie che si muovono su piani diversi, toccati, ora uno ora l’altro, dai pellegrinaggi di queste melodie, dalle loro, spesso alterne, fortune, dai musicisti che hanno legato la propria voce in modo definitivo alle varie canzoni. Sono storie che scorrono su piani diversi – le vite delle singole persone e lo sviluppo del jazz, l’intreccio dei riferimenti culturali, la storia dei grandi avvenimenti – unite dai fili tracciati da Bragalini in maniera sottile quanto robusta.


E, per dare una chiave più efficace del metodo seguito dall’autore, arriva in soccorso la bonus track, la celebre e lirica Nothing to lose, scritta da Henry Mancini per la colonna sonora di Hollywood Party. Bragalini si addentra in una indagine volta a scoprire come mai una canzone che aveva tutte le carte in regola per diventare a sa vola uno standard, non abbia incontrato questa fortuna nei jazzisti. E, di volta in volta, seguendo i passi dell’indagine, il discorso si amplia a coinvolgere tutti i fattori che hanno portato le altre melodie sui leggi dei jazzisti, pronte a diventare terreno di incontri per improvvisazioni infuocate o morbide ballate.