Slideshow. Mario Fragiacomo

Foto: Maria Luisa Runti da pagina facebook Mario Fragiacomo










Slideshow. Mario Fragiacomo.


Jazz Convention: Mario, anzitutto mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?



Mario Fragiacomo: Il primo approccio con la musica è sicuramente da attribuire a mio padre (ex suonatore di tromba bassa, non professionista. Vivevo a Trieste naturalmente e mi fece iniziare lo studio della musica a nove anni, portandomi nella Scuola di Banda del Ricreatorio Comunale G. Brunner assieme a mio fratello Aldo. Poi c’era mia zia Bianca con il suo Bosendorfer gran coda in casa ma poi venduto per raggranellare qualche soldo, anche lei non professionista, compagna di studi di Lelio Luttazzi e qualcun altro in famiglia che suonava il clarinetto per diletto. Quindi nell’aria c’era sempre un po’ di musica, dalla mia nascita.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?


MF: Questa te la racconto. Avevo sedici o diciassette anni e frequentavo la Scuola di tromba del Conservatorio G. Tartini di Trieste. Periodicamente alcuni allievi del conservatorio frequentavano anche la scuola di “musica d’insieme” al pomeriggio. Suonavo anch’io in uno di questi “combo” che di solito erano quintetti/sestetti di strumentisti a fiato. Mi avevano dato da leggere uno spartito dove dovevo affrontare tra le altre note una bella nota lunga bassa: un si d’effetto sotto il rigo che per chi conosce lo strumento, bisogna assolutamente aggiustare l’intonazione con l’uso della terza pompa. Quando arrivavo a quel punto assieme agli altri il maestro coordinatore del combo fermava tutti e mi diceva che l’intonazione era sbagliata. Riprovavo ma non riuscivo mai ad azzeccare l’intonazione che voleva lui, anche spostando di qualche millimetro la terza pompa. Erano inutili tutti gli altri tentativi e alla fine non mi fece suonare quella nota! Mi aveva messo in una condizione psicologica davvero imbarazzante, anche mettendosi ad urlare. Da quel momento ho pensato di cercare una musica diversa. Ho trovato il jazz!



JC: Ha ancora un significato oggi la parola jazz?


MF: Sicuro che ha ancora un significato la parola jazz. Almeno per distinguerla dalle altre musiche. Purtroppo però, almeno in Italia, è una musica di nicchia. Poco frequentata dai giovani d’oggi troppo bombardati dalle trasmissioni televisive e dalla musica “edonistica” di consumo con l’utilizzo dei nuovi mezzi di comunicazione di massa come i telefonini tecnologici, i personal computer e i vari iPod, iPad, e dai social network in Rete. Troppe ore davanti al computer e pochi pensano a dedicarsi allo studio di uno strumento musicale.



JC: Ma cos’è per te il jazz?


MF: Non ridere ma per me è jazz questo: Io improvviso una nota, tu improvvisi un’altra, e un terzo un’altra ancora. Se mi piace quello che ho sentito, questo è jazz!



JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?


MF: Faccio parte di quella schiera di musicisti tosti che soffia nel tubo di una tromba di latta trovata tanti anni fa nel ghetto ebraico di Trieste dove sono nato e dove ho vissuto la prima parte della mia vita. Mi piace autodefinirmi “quella tromba di latta del confine nord orientale italiano”, giusto per staccarmi un po’ dagli altri soffiatori del tubo che circolano per lo stivale. Madre istriana di Topolovec ora in Slovenia, padre triestino (quindi italiano), bisnonno di Pola (ora Croazia).



JC: È questo che significa essere nati e aver vissuto sul confine nord orientale italiano?


MF: Sì, si assorbe dalla nascita un particolare milieu. Io ho visto con i miei occhi la Trieste del delirio patriottico dell’annessione all’Italia, la Trieste piena di inquietudini oniriche sui cui si innesta la psicanalisi di Weiss, ho vissuto le migrazioni degli istriani e fiumani, l’esilio dei dalmati, frequentando i campi profughi del Silos di Trieste e di Padriciano (in provincia di Trieste). I martiri delle foibe sul Carso, e la Risiera di San Sabba erano lì a quattro passi… Un humus multiculturale ti entra dentro, ti forgia l’anima, ti contamina il cuore, ti influenza il tuo modo di pensare e di vedere le cose, i fatti della vita, perché in ogni posto che frequenti aleggia un non so che di strano che allo stesso tempo è anche noto: le scritte sui muri, i dialoghi della gente per strada, nell’ambiente famigliare, nella scuola con insegnanti d’impronta austro-ungarica, nella particolare atmosfera bilingue (italiano-sloveno) delle osmize sul Carso.



JC: Tutto questo alla fine cosa significa per te?


MF: Forse è il documento di identità di chi vive la frontiera per cui vuoi dirmi che tutto questo non influenza la tua vita, i tuoi sentimenti, le tue idee? Frequentando l’ambiente jazzistico tutto questo viene simultaneamente tradotto in musica! Oggi lo chiamano “jazz mitteleuropeo”!



JC: Come pensi che si evolverà il jazz del presente e il jazz del futuro?


MF: In Italia, ma anche in Europa, le trasformazioni socio-politiche e i processi di industrializzazione stanno distruggendo il patrimonio culturale in genere. Ci troviamo in un periodo di stanca creatività con pochi nuovi talenti all’orizzonte. Si individua un talento in modo sbagliato anche da parte degli addetti ai lavori. Ossia è considerato bravo chi fa tremila note al minuto. Si pensa sempre al musicista “tecnico” che è capace di “ripetere” bene uno standard jazz elogiando quindi il perfetto “ripetitismo” e non la creatività. Con questi stilemi e questo modo di pensare penso che il jazz del futuro andrà verso un processo di globalizzazione che distruggerà la personalità artistica del musicista. Non servirà più cercare nuovi suoni, quei suoni che ognuno sente e vive sulla propria pelle ogni giorno che passa, quei suoni che ci fanno gioire e quelli che ci fanno soffrire che per il musicista vero diventano “originals”, “musica nuova”, per essere se stessi, per identificarsi dal mestierante delle tremila note al minuto!



JC: Non hai registrato molti dischi, ma tra quelli che hai firmato ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?


MF: Sono affezionato al primo lavoro discografico che è uscito più di vent’anni fa: “Trieste, ieri un secola fa” presentato dallo scrittore Fulvio Tomizza e pubblicato dalla Splasc(h) Records nel 1988. Anche premiato nel Top Ten del referendum della rivista Musica Jazz. L’album si può considerare anticipatore di quel filone che mette insieme jazz e tradizioni popolari dell’Est Europa (oggi diventato tanto di moda).



JC: E a risentire “Trieste, ieri un secola fa” oggi, dopo tanto tempo, che cosa senti?


MF: Non mi provoca un senso di tempo andato, di cose vecchie. Al contrario, ho ritrovato tanta freschezza, come se l’incisione fosse avvenuta in questo momento. Inconsapevolmente mi sono accorto che le mie scelte appassionate di allora e l’amore per la musica folkloristica, naturalmente rinvigorita da un solido e lucido linguaggio jazzistico, mi avevano fatto anticipare i tempi, le mode di oggi. Avevo descritto un viaggio alla ricerca delle mie radici, nella Trieste all’ombra della Cortina di ferro che separava l’Italia dalla Jugoslavia di Tito nel periodo della provvisoria amministrazione militare alleata (AMG-FTT 1947-1954) mettendo in risalto la cultura della città di Italo Svevo, di Umberto Saba, di James Joyce, di Fulvio Tomizza.



JC: Sono di fatto i tuoi ricordi d’infanzia?


MF: Certo, il dramma dell’Esodo dei 350 mila istriani, fiumani e dalmati, le foibe sul Carso oggi finalmente sottratte dall’oblio della storia con la Legge n. 92 del 2004 che istituisce il Giorno del Ricordo. Tutte queste vicende si erano trasformate in quadretti, composizioni musicali originali, con tanti elementi di creatività pura. Posso affermare di essere stato il primo compositore in Italia ad aver dedicato un’opera musicale al dramma dell’Esodo, apportando sensibilità jazzistiche e contemporanee, combinando sentimenti e ricordi di vita vissuta con lo spirito del nostro tempo.



JC: Mario, il ultimo lavoro discografico risale invece a due anni fa…


MF: Era quello che ho pensato di intitolare “Histria ed oltre”, ci stavo lavorando da molto tempo per farlo uscire quanto prima, anche con il coinvolgimento di qualche illustre ospite come il sassofonista Francesco Bearzatti e il batterista U. T. Gandhi, musicistoni che dovrebbero tra breve liberarsi da impegni per incidere in Friuli; all’epoca, già allo stesso tempo, era ?vecchio’ perché erano un po’ di anni che stava fermo nel cassetto. Non riuscivo a pubblicarlo. Dopo “Trieste, ieri un secolo fa”, “Latitudine Est” e “Balkan project”, mancava all’appello l’Istria di mia madre per completare il quadro del mio jazz mitteleuropeo.



JC: Parlando dei dischi degli altri, tra gli album che hai ascoltato quale salveresti per l’isola deserta?


MF: Sono tantissimi i dischi. Troppi per farne un elenco. Non ne parlo perché un frequentatore del jazz ci arriva da solo. Naturalmente la mia scelta si indirizza verso i trombettisti della storia del jazz. Così a ruota libera soltanto alcuni nomi di celeberrimi artisti: dai contemporanei come Tom Harrell, Wynton Marsalis, Terence Blanchard, ai vari Freddie Hubbard, Chet baker, Miles Davis fino ad arrivare al mitico Louis Armstrong e a Bix Beiderbecke. Ma se andiamo a ricercare lo stile, beh per lo “swing” includerei Harry Sweet Edison, per il “Bop” e “Post Bop” naturalmente Fats Navarro e Dizzy Gillespie, con Booker Little e Woody Shaw, per il “Hard Bop” Lee Morgan e Clifford Brown. In Italia, pochi trombettisti: Enrico Rava, Fabrizio Bosso, Flavio Boltro, Fabio Morgera, anche se da molti anni vive e lavora a New York.



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?


MF: Caspita, questa domanda è tosta. Richiede qualche approfondimento. Però la risposta a queste tre domande la posso trovare in un’unica risposta di Karlheinz Stockhausen, padre di Markus con cui ho avuto l’opportunità di collaborare negli anni Novanta. Mi diceva: “Un musicista, oggi, proprio perché può conoscere tutto di tutti, deve sapersi esprimere individualmente ed essere assolutamente originale ogni volta che compone o che fa comunque della musica. Non ha più senso seguire una scuola o uno stile. Se a me venisse il sospetto che una mia opera rassomigliasse ad un’altra, anche di me medesimo, la distruggerei subito, senza esitare”.



JC: Qual è stato per te il momento più bello della tua carriera di musicista?


MF: Quando ho potuto mollare il lavoro d’ufficio, per dedicarmi totalmente alla musica. Molti anni fa, lavoravo part-time a Milano per una multinazionale svizzera condotta da Sergio Marchionne prima che arrivasse alla Fiat di Torino.



JC: Quali sono i musicisti con cui ami di recente collaborare?


MF: Attualmente, coordinando il Mitteleuropa Ensemble a Milano collaboro da anni con Sabrina Sparti (vocal), Roberto Favilla (pianoforte) Tito Mangialajo (contrabbasso), Massimo Pintori (batteria) e Felice Clemente (sax) e in alcune eccezionali performance pluridisciplinari (musica, poesia ed arti visive) con Marco Detto (pianoforte), Laura Bagarella (voce narrante), Massimo Ottoni (sand animation) oltre ad alcuni musicisti sardi come Eugenio Lugliè (flauto), Claudio Gabriel Sanna (chitarra e voce), Graziano Solinas (fisarmonica e pianoforte) e Claudia Farina (voce recitante). Quasi tutti artisti fuori dal giro dei grandi festival e rassegne in Italia ma non per questo meno bravi, anzi…



JC: E per quanto riguarda il passato?


MF: Anche fuori dal campo jazzistico, ho lavorato con prestigiosi musicisti e personaggi di varia natura quali, Markus Stockhausen, John Tchicai, Darko Jurkovic, Abdulah Sidran, Murray Lachlan Young, e in Italia con Arrigo Cappelletti, Claudio Pascoli, Luca Bonvini, Moni Ovadia (5 anni insieme), Daniele Abbado, Fulvio Tomizza, Enrico Baj, Bruno Chersicla, Luigi Donorà e tanti altri. Ho sempre tenuto in considerazione nei miei lavori discografici cantanti sopraffine, di alto livello come Diane Rama, Anne Banks, Olatz Gorrotxategi e Sabrina Sparti.



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


MF: Più che un progetto è una realtà. Nel senso che ho creato recentemente una forma di performance al passo con i tempi. Non soltanto musica. Non il solito concerto e basta ma una sorta di performance pluridisciplinare. Ho coinvolto oltre alla musica e la poesia, anche le arti visive. Musicisti, attori e un artista che crea dei disegni con la sabbia in tempo reale. Una peculiare soluzione tecnica permette all’artista, che si affianca ai musicisti sul palco, di dipingere utilizzando la sabbia su una lavagna luminosa ripresa da una telecamera e proiettata su grande schermo, senza visualizzare le mani. Le immagini scaturiscono così dalla luce e si creano le une dalle altre dando origine ad un flusso di improvvisazione visivo unico nel suo genere. La tecnica del banco luminoso viene inoltre declinata in ogni sua possibilità espressiva utilizzando non solo sabbia, ma carte, cotone e materiali vari in bianco e nero ma anche il colore con un ingegnoso ed abile utilizzo delle tempere. Ne risulta un dialogo tra arti, tre dimensioni che si intrecciano in uno spettacolo evocativo ed emozionante. Giorgio Gaslini, sul finire degli anni Settanta aveva creato la “Musica Totale”. Questa forma di spettacolo come la chiamereste? Arte Totale? Sì dai! Ai posteri l’ardua sentenza.