Gianluca Petrella & Giovanni Guidi – Soupstar

Gianluca Petrella & Giovanni Guidi - Soupstar

MGA – 2013




Giovanni Guidi: pianoforte, pianoforte elettrico

Gianluca Petrella: trombone

ospiti

David Brutti: sax baritono, sax contrabbasso

Ricardo Villalobos & Max Loderbauer: electronics


Giovanni Guidi e Gianluca Petrella hanno ricevuto, dal loro apparire sulla scena, tutta una serie di meritati riconoscimenti. Entrambi hanno vinto, infatti, il top jazz come nuovi talenti e hanno trovato un mentore in Enrico Rava, uno che ha fiuto per scoprire i giovani leoni, incoraggiarli e arruolarli nelle sue formazioni. Così nel suo ultimo gruppo, Tribe, il trombettista torinese ha voluto proprio il pianista folignate e il trombonista pugliese. In verità Petrella collabora da più tempo con Rava. Era già al suo posto nel quintetto precedente, quando al pianoforte sedeva ancora Stefano Bollani. I due protagonisti dell’incisione si conoscono benissimo, quindi. L’esperienza di suonare in coppia è, comunque, un’ulteriore chance per un’attività artistica orientata sempre verso nuove esperienze e avventure.


Il disco è organizzato secondo alcune linee di indirizzo ben individuabili. Per la maggior parte delle tracce i due si confrontano faccia a faccia con i rispettivi strumenti. Il dialogo prevale in ogni situazione. Non c’è posto per le parti in solitudine. Ogni brano è concepito, infatti, per essere eseguito con la collaborazione del partner. Guidi organizza fondali mossi e incalzanti. Il suo pianismo è spesso percussivo e martellante. Quando necessita, usa il piano elettrico per rimpolpare l’accompagnamento. Nei suoi interventi può rivelare un eloquio torrenziale, free, come nell’incipit diScattering o distillare le note una a una, come gocce che scendono da un rubinetto chiuso male, come inNosferatu. InPrelude to a kiss è lirico e classicheggiante, senza darlo a vedere. Altrove è solenne e pieno di groove pur contenuto, come inSettimo blues.


Petrella è un virtuoso di prima categoria. Ha pieno dominio del suo strumento. Ha una concezione avanzata della musica. Il suo idioma, ad ogni buon conto, è perfettamente intellegibile. Non suona per gli addetti ai lavori, in poche parole. Può essere apprezzato anche da un pubblico non del tutto avvertito. E’ la voce di un’avanguardia dolce, non radicale che si appoggia sulla tradizione del jazz intesa nella sua totalità. Con il suo trombone vola in alto sino a toccare il cielo. Scala vette impervie restando limpido e cristallino nel timbro. Viceversa scende nelle viscere della terra, allungando a dismisura il suo ottone con la coulisse, per pescare i suoni più gravi immaginabili. Produce note doppie, triple con effetto bordone. In determinate situazioni fa cantare il trombone senza indulgere in sentimentalismi. Si serve della loop station per coprire ancora più spazio sonoro in un colloquio comunque sempre alla pari con il collega umbro.


In tre brani sono presenti i DJ Ricardo Villalobos e Max Loderbauer. Qui trapela la passione dei due musicisti italiani per l’ambient e i generi di confine. Sono pezzi di pochi minuti, ma che dicono tanto. Ci si cala, infatti, in un’atmosfera noise piuttosto granitica, ma, soprattutto inPom-pay, vengono fuori aperture efficaci di tastiera e trombone, a liberarsi dalle maglie di un fitto reticolato elettronico, una coltre spessa, quasi impenetrabile.


L’altro ospite è David Brutti ai sassofoni baritono e contrabbasso. E’ impiegato in due pezzi, in cui rafforza, rinsalda la spinta ritmica, completando il discorso dell’altro strumento a fiato. In particolare è presente inYou ain’t gonna know me (‘cos you think you know me) un’apoteosi, una festa, racchiusa in meno di due minuti. La versione dal vivo sfiora, invece, abitualmente i dieci e chiude il concerto. Proprio la concisione, la capacità di sintesi si pongono come altre qualità del disco. In composizioni tutte piuttosto brevi Petrella e Guidi riescono a raccontare storie, a inoltrarsi in mondi inesplorabili, a ripensare gli standards e a divertire, divertendosi per mezzo di un omaggio al jazz sudafricano.


Soupstar, a conti fatti, è il primo disco di un duo che possiede cultura, competenza, intuizioni notevoli e abilità di svilupparle in maniera affatto personale. E’ un lussuoso biglietto da visita per cominciare un percorso già dall’esordio molto ben tracciato.