Slideshow. Riccardo Lovatto

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Slideshow. Riccardo Lovatto.


Jazz Convention: Così, a bruciapelo chi è Riccardo Lovatto?


Riccardo Lovatto: Si parte con la domanda più difficile. Non riesco ancora a rispondermi quando me lo chiedo. Sono un giovane chitarrista di 25 anni, ho un percorso accademico alle spalle con grandi maestri del jazz italiano ma ho ancora infinite cose che devo e voglio imparare. Sono molto metodico e ho una gran voglia di esprimermi e di scrivere musica. Immagino di essere un cercatore di risposte, un viaggiatore e perché no, un romantico.



JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?


RL: Avevo forse sei anni, era estate e giocavo nel giardino di casa con una bacchetta di legno, mio padre mise su della musica e io feci finta di dirigere una orchestra. Ad un mio movimento della mano si alzò una folata di vento e l’erba si mosse. Io mi spaventati moltissimo e corsi in casa a raccontarlo quasi in lacrime, i miei genitori ridevano. Capii quel giorno la forza di questa arte.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?


RL: Ho sempre trovato nel jazz una perfetta riproduzione musicale della vita. Scelte immediate, magari preparate, ma comunque non ritrattabili. Improvvisazione, sentimento e disciplina.



JC: E in particolare un chitarrista jazz?


RL: Non so dire perché la chitarra. Da bambino in casa avrei potuto scegliere il pianoforte (che ho studiato per qualche anno), il contrabbasso. Alla fine ho trovato nella chitarra ciò che cercavo, la doppia difficoltà di dover imparare l’arte del solista e quella dell’accompagnatore. Anche questa per me è una metafora di quello che ci troviamo a fare ogni giorno nella vita.



JC: Ma cos’è per te il jazz?


RL: Per me il jazz è una atmosfera, un approccio alle cose, un modo di concepire la musica e insieme un genere musicale a tutti gli effetti. E’ una delle forme musicali più interessanti del ‘900, ancora di più quando contamina e si lascia contaminare. Il jazz è una musica libera, ma fatta di quella libertà che va guadagnata con ore di studio, riflessione e rapporto con l’altro. Per questo lo adoro.



JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?


RL: Il jazz per me rappresenta la necessità di entrare a fondo nei meccanismi della musica e del suono. E’ un’arte che necessita di disciplina e controllo e insieme di voglia di andare al di là dei propri limiti. Il vero concetto per me è mettersi in discussione ad ogni nota, cercare qualcosa senza aver paura, a volte da soli e spesso in sintonia con il gruppo. L’inter-play per me rimane il concetto più straordinario associato a questa musica, dopo centinaia di volte mi esalto ancora quando un batterista accenta con me una frase, quando un pianista armonizza una mia linea. Viaggiando ho scoperto che non conta il tuo paese di provenienza, la tua lingua, quando si suona insieme ci si capisce perfettamente e a fondo e la maledizione della torre di Babele non conta più.



JC: Mi racconti ora della tua esperienza giapponese?


RL: Sono partito ormai due anni fa dall’Italia, ho sospeso le attività che stavo facendo perché sentivo il bisogno di viaggiare e imparare al di là dei miei schemi. Ho scelto Tokyo per vari motivi. Non tutti lo sanno ma la capitale nipponica è il luogo con più jazz club al mondo. Ho fatto un elenco dei locali in cui si svolgevano le jam session e mi sono buttato. Ho trovato molta professionalità ed un altissimo livello tecnico, ho preso le mie batoste e ho imparato moltissimo. Ho iniziato a suonare nei club e allo stesso tempo ho iniziato a scrivere una musica nuova, ispirata alla scrittura giapponese.



JC: Che cosa ti ha da subito affascinato del Giappone?


RL: Sicuramente il fatto che i loro ideogrammi, i kanji, non siano semplici parole ma “insiemi di significato”. Vanno scritti con un preciso ordine dei tratti, con certe proporzioni, con specifici movimenti in entrata e in uscita del pennello. Ho composto così una serie di brani che seguono le medesime regole della scrittura tradizionale e che eseguirò in anteprima con il mio Wolf Gang 4et il prossimo febbraio durante un tour a Tokyo e Kyoto. Il mio progetto si chiama Musical-Shodo e unisce il concetto di scrittura tradizionale (shodo) con il linguaggio musicale e jazzistico.



JC: Cosa c’è in comune con l’Italia? e di diverso?


RL: Questo paese continua a sembrarmi la cosa più lontana dai luoghi in cui sono cresciuto. Spesso la vita qui segue direzioni pre-impostate, in Italia invece?magari ce ne fosse qualcuna di direzione. Tutto è al contrario di come ci si è abituati da noi, si hanno difficoltà anche solo ad aprire le porte i primi tempi. Le strade sono sicure e pulite, i negozi aperti spesso 24 ore su 24, i trasporti impeccabili. Il rovescio della medaglia però sono gli scarsi rapporti tra le persone, la poca sincerità e spesso la solitudine. Venire da soli in questo paese non è facile, al contrario venirci in coppia o in compagnia consente di godersi solamente i vantaggi.



JC: Come vedi il Giappone dal punto di vista jazzistico?


RL: Sono rimasto da subito molto colpito dai giovani jazzisti. Il livello è molto alto, soprattutto in ambito main-stream. Ci sono però anche parecchie situazioni e band molto moderne, magari fondate da ragazzi che hanno studiato o vissuto a New York. Si passa quindi da aspiranti Parker a chitarristi alla Holdworth, che magari dialogano nella stessa jam session. Un aspetto importante qui sono proprio le jam che rimangono luoghi di incontro, scambio e confronto giornaliero. Nella stessa serata puoi trovarti a duettare con ragazzi giovani o professionisti affermati. Il loro approccio allo studio è molto metodico a mio opinione e a volte si perde un po’ la liricità a cui noi mediterranei siamo tanto legati.



JC: Quali jazzmen nipponici hai conosciuto o ascoltato dal vivo? Quali reputi i migliori?


RL: Ho ascoltato devo ammettere non moltissimi concerti di grandi musicisti. Posso citare Makoto Ozone tra i più grandi. Una cosa che invece ho fatto è informarmi subito su quali fossero i giovani e giovanissimi talenti della città. Sono andato a vederne molti con le loro band e i loro progetti originali. Ne voglio citare un po’ che mi hanno colpito per diversi motivi: ci sono Taikou Kikuchi e Ryu Kawamura (con cui ho avuto l’onore di suonare), Satsuki Kusui, Yuya Wakai (a detta di molti il nuovo miglior pianista giapponese), Kouichi Ishikawa, Taiga Motoyoshi, Sota Kira…



JC: Fra tutti i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?


RL: Accidenti, solo una scelta è difficile. Il primo disco che mi ha segnato come chitarrista, che so a memoria ma che continuo ad ascoltare è East coast love affair di Kurt Rosenwinkel. Ovviamente la mia scelta potrebbe cambiare di minuto in minuto, spero di non finire su un’isola deserta senza il mio ipod o una connessione wi-fi…



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?


RL: Splendida domanda. Calvino, Magris, Hemingway, Wilde, Neruda, Coltrane, Shorter, Jim Hall, Mehldau, Rosenwinkel, Parks, Glasper. Nella vita? La risposta è semplice: le persone che mi hanno cresciuto e amato insieme a quelle che sono state per me un esempio civico e morale.



JC: E i chitarristi che ti hanno maggiormente influenzato?


RL: Il primo solo di jazz che abbia mai trascritto è un solo su Beautiful love di Jim Hall in duo con Petrucciani, non sapevo chi fosse ne cosa stesse suonando. Poi sono arrivati Rosenwinkel, Metheny, Scofield e Frisell. Ultimamente Gilad Hekselman e Mike Moreno. Ma le vere influenze vengono dai chitarristi con cui ho studiato: Alex Gariazzo, Bebo Ferra e Roberto Cecchetto.



JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?


RL: Avevo quindici anni o poco più e stavo suonando live un brano che penso fosse Layla in acustico. Alla fine del mio solo per la prima volta ho ricevuto gli applausi del pubblico, ricordo che non capivo cosa fosse successo. E’ un momento irripetibile penso nella carriera di un musicista.



JC: E un momento più recente?


RL: Direi che è invece quello in cui un anno fa sono salito sul palco dell’auditorium di Yokohama per presentare alcuni miei brani originali e di colpo mi sono accorto che le sedie erano piene e c’erano alcune persone in piedi, tutti in assoluto silenzio. Ho provato una grande felicità e una grande gratitudine verso ognuno di loro.



JC: Come vedi la situazione della musica in Italia?


RL: Vivendo qui a Tokyo mi sembra di vedere più chiaramente la questione. Qui entro da Starbucks o in un supermercato e può capitarmi di sentire Rollins, Coltrane. Al ristorante mi è capitato di ascoltare Beethoven in diffusione. In Italia purtroppo manca in generale una conoscenza musicale diffusa, l’offerta manca e la gente si sta stancando di cercare. Per questo si affida a programmi di diffusione musicale non sempre di qualità. La colpa però di chi è? Questa è una domanda che mi faccio ogni giorno e che secondo me è La Domanda.



JC: E come risponderesti alla “Domanda”?


RL: Una gran parte del problema viene dall’eccessiva commercializzazione di questa arte e siamo tutti d’accordo. Esiste però anche il problema dei musicisti che si svendono per qualche apparizione tv, degli artisti che non si scrivono nemmeno più i testi e dei jazzisti che si chiudono nelle sale prova. Ci vorrebbe un cambiamento forte, di ritorno allo spettatore, di educazione musicale sincera, di voglia di condividere. Insomma la risposta alla domanda è: “per ora non la vedo bene”.



JC: E più in generale della cultura in Italia?


RL: La cultura è una cosa faticosa e l’Italia è un paese pigro. Ci siamo seduti su quello che abbiamo prodotto nei secoli passati e pensiamo che basti. Peccato che cultura, modernità ed economia siano sempre andate a braccetto e se cali in una cali anche nelle altre. Così oggi siamo un paese vecchio, incapace di rialzarsi, senza spirito critico e voglia di cambiare. Le possibilità ci sono, esportiamo menti in tutto il mondo ma purtroppo i fondi mancano e quelli che una volta erano i magnati della cultura, oggi investono in altro, pensando che sia più importante. Durante un mio concerto qui a Tokyo, alle spalle della band venivano proiettate immagini dell’Italia: colline, montagne, opere d’arte, mare stupendo, cibo, vino, tutte cose che per cui il mondo ci ammira e invidia. In quel preciso momento mi sono chiesto, con tutto quello che abbiamo a disposizione come abbiamo fatto ad arrivare dove siamo?



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


RL: Dopo questo tour in Giappone vorrei incidere un disco con il mio quartetto che testimoni questa esperienza. Vorrei poi vivere ancora un periodo qui e approfondire i legami musicali e personali con persone che ho incontrato nello scorso anno. Vivere qui non è semplice per vari motivi ma le possibilità che offre questa città sembrano infinite. Per la prossima estate mi piacerebbe organizzare qualche data ed evento in Italia in modo da promuovere anche lì il mio lavoro giapponese.