Slideshow. Piero Ponzo

Foto: Rosaria Macrì dal sito di Piero Ponzo










Slideshow. Piero Ponzo.


Jazz Convention: Così, a bruciapelo chi è Piero Ponzo?


Piero Ponzo: Piero, o Pier Renzo, Ponzo è un cinquantatreenne di Carrù, tra le Langhe e le Alpi, che si occupa di musica dall’età di dieci anni. Ha suonato in mezzo mondo, clarinetti e sassofoni insieme a jazzisti, cantautori, musicisti rock e folk, musicisti classici e d’avanguardia, ha collaborato con attori, danzatori, pittori e scrittori. Ha scritto e scrive musica di ogni tipo, ha partecipato alla registrazione di oltre cinquanta album, è arrangiatore, si diverte a riciclare oggetti da spazzatura per farne strumenti, gioca con percussioni e ammennicoli sonori di ogni tipo, passa intere giornate sui software musicali o grafici, e ultimamente ha deciso di pubblicare dei racconti, surreali, titolo della raccolta: Il plurale di due.



JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?


PP: All’età di cinque o sei anni, a fianco di mia madre che canta in chiesa e io che alzo gli occhi stupito chiedendomi: ma cosa sta facendo? Ho provato anche un po’ di vergogna per lei, buffo come alcuni dettagli rimangono tali e quali nella memoria.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista?


PP: Intorno ai dieci anni sono stato coinvolto dagli amici a entrare nella fanfare del paesello, il clarinetto mi ha scelto e chiesto risultati che erano spesso tutt’altro che scontati, da quel momento la Musica non ha più smesso di riempire le mie giornate, e di affascinarmi in tutte le sue manifestazioni. Poi naturalmente c’è l’aspetto socializzante del far musica, e l’opportunità di viaggiare, diffondere il proprio punto di vista, musicale ma non solo.



JC: E in particolare un sassofonista?


PP: Il sassofono, entrato nella mia vita a circa 20 anni, ha rappresentato uno sfogo libertario rispetto allo studio del clarinetto in Conservatorio, sperimentavo su contralto, tenore e baritono tutto ciò che sul clarinetto non mi era “ancora” consentito, poiché studiare rappresentava l’aspetto “serio” del suonare, mentre il sax incarnava l’aspetto ludico o free del mio far musica.



JC: Tra i vari strumenti che suoni quale prediligi e perché?


PP: Il clarinetto è senz’altro lo strumento con cui mi è più facile esprimermi, ma adoro tutti gli strumenti a cui mi avvicino, dalle percussioni ai flauti etnici, dalle tastiere a mantice ai piccoli oggetti riciclati alla ricerca di una qualche anima sonora.



JC: Come ti definiresti: jazzman, improvvisatore, cabarettista, musicista folk o altro?


PP: Musicista, tout court: inventare, comporre, interpretare, ideare, improvvisare, far danzare e divertire, anche con la parola, o far pensare meditabondi, fare immaginare o sognare, tutto quanto ha a che fare con il suonare sicuramente può definirmi bene.



JC: Ma cos’è per te il jazz?


PP: Freedom now suite!



JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?


PP: Come scherzavo sulla domanda di prima citando l’album di Max Roach (uno dei primi acquisti di adolescente, dopo i Pink Floyd, ovvio…), all’idea di jazz associo la libertà di azione, musicale e di pensiero, la fantasia, il fondamentale aspetto creativo nell’apporto personale, sì, libertà, coinvolgimento e immaginazione.



JC: Tra i dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?


PP: Sono molto affezionato a due degli ultimi nati, Walking in my mind, musica per sax ed elettronica, e Ayur, musica per rilassamento, una delle strade musicali che ho iniziato a frequentare sempre più spesso.



JC: E tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?


PP: My life in the bush of ghosts, un album del 1981 di Brian Eno e David Byrne.



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?


PP: Adoro imparare, dunque fare una lista completa dei maestri è arduo, provo a cavarmela citando Mozart, Stravinsky, John Cage, Demetrio Stratos, Prince e Willem Breuker nella musica, oltre naturalmente ai molti musicisti con cui ho collaborato, nella cultura partiamo da Socrate, un po’ di Medioevo, Nietzsche, un goccettino di Sartre (l’esistenzialismo ha sempre un suo perché), e poi alcuni strani personaggi incontrati viaggiando; nella vita, le amicizie e i grandi amori.



JC: E i sassofonisti che ti hanno maggiormente influenzato?


PP: Alcuni nomi ordine sparso: Steve Lacy, Evan Parker, Anthony Braxton, Roscoe Mitchell, David Sanborn, Peter Brotzmann, Carlo Actis Dato.



JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?


PP: Gironzolo da circa 30 anni coi miei strumenti a spasso per il mondo, ammetto che è difficile centrare un unico momento più bello, la musica regala sempre grandi emozioni. Per certo, alcuni luoghi “sacri” in cui ho avuto l’occasione di suonare rimangono nella memoria di un musicista, e lavorando anche molto in studio di registrazione, come side-man o arrangiatore, i momenti intensi si moltiplicano ulteriormente; ma cito volentieri la produzione in Francia del primo disco di Gianmaria Testa, nel lontanissimo 1995…



JC: Quali sono i tipi di musicisti con cui ami collaborare?


PP: I musicisti di grande energia umana, dotati di apertura mentale, fantasia e immaginazione, spiritosi, sinceri e generosi verso il pubblico.



JC: Come vedi la situazione della musica in Italia?


PP: Guardandomi intorno dico: divertente, variopinta, un po’ standardizzata, o “colonizzata”, ma comunque creativa, siamo un popolo di santi, navigatori, poeti E musicisti 🙂



JC: E più in generale della cultura in Italia?


PP: Più attenzione rispetto allo sviluppo culturale, ad ogni livello, renderebbe un grande servizio a tutti, oggi e domani.



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


PP: La pubblicazione di alcuni album di musica, diciamo così, astratta. E di un paio di vecchi album che sono in lista di attesa. Poi un progetto speciale con i Trelilu, gruppo piemontese di musica e cabaret, insieme ad un noto scrittore torinese, per ora il nome è trop secret! E una riproposizione di canzoni di Brassens, tradotte in italiano, insieme a due nuovi compagni di strada, Giovanni Battaglino e Giovanni Ruffino.