Ice-t, il rap e il jazz

Foto: copertina del DVD









Ice-t, il rap e il jazz.




In apparenza non ci sono forti legami tra il rapper Ice-T e il jazz come musica: Ice-t nel 1993 campiona in Home Invasion il brano Jungle Jazz del 1975 per opera di Kool and The Gang (un gruppo funky-disco-soul); e nel 1995 viene invitato al Montreux jazz Festival, dove peraltro di jazz se ne sente ormai pochissimo, vista la nutrita schiera di artisti rock, folk, rap, soul che vengono ormai invitati al posto di swinger, bopper, freemen. Però, un film recente diretto proprio da Ice-t, in diverse occasioni, mostra artisti rap ben consapevoli del valore del jazz anche sulla loro creatività


Procedendo con ordine, il rap celebra la propria storia ormai trentennale – o forse anche più antica, se si osservano e si ascoltano i quasi diretti antecedenti come Slim & Slam nel jazz o il talking blues delle origini – con un film documentario, The Art Of Rap – uscito in DVD in Italia grazie a Real Cinema della Feltrinelli – che vede alla regia uno dei rapper più significativi, il cosiddetto Ice-T, all’anagrafe, Tracy Lauren Marrow, classe 1958 da Newark (New Jersey), che già da tempo intrattiene con il cinema un rapporto privilegiato soprattutto come attore caratterista in una cinquantina di film da Break dance (1984) a Poliziotti di riserva (2011) passando attraverso New Jack City, Verdetto Finale, Johnny Mnemonic, La vendetta, Air Rage. In questo reportage audiovisivo – il cui titolo completo è Something From Nothing: The Art Of Rap, uscito in America nel 2012 – proprio a sottolineare del rap il valore estetico-culturale in quanto mezzo comunicativo e linguaggio sonoro afroamericano, Ice-T viaggia da Costa a Costa, fermandosi soprattutto nelle tre grosse aree metropolitane (New York, Detroit, Los Angeles) dove il rap nasce e prospera grosso modo dagli anni Settanta ai nostri giorni.


Ice-T incontra esclusivamente i colleghi, con i quali intrattiene conversazioni franche, amichevoli, spiritose, instaurando un rapporto collaborativo, ben lontano dalle sfide talvolta cruenti che può vantare la cosiddetta neocultura hip-hop. E a loro volta gli MCs e i rapper raccontano e talvolta cantano o meglio improvvisano, ritmano, verseggiano, appunto rappano con quello stile proverbiale che simboleggia la novità assoluta nelle culture giovanili degli anni Ottanta-Novanta e per molti critici anche l’ultima grande rivoluzione compiuta dal sound generazionale e dalla black music statunitense. Ice-T ascolta le complesse teorie o le semplici esternazioni di alcuni rapper – Dr. Dre, Snoop Dogg, Eminem, Ice Cube, Public Enemy, Run-Dmc – secondo i quali, giustamente, le radici della propria arte si trovano nella storia delle comunità di colore di ex schiavi (e ancora spesso emarginate nei ghetti metropolitani) e in particolare nelle musiche afroamericane create lungo l’intero XX secolo. Molti citano il blues, il jazz, il soul, il r’n’b non solo quale memoria intellettuale, ma anche come strumento utilizzato per inventare inedite espressioni: soprattutto i ritmi della batteria e le linee dei bassi vengono campionati accanto ai riff dei fiati o delle chitarre, onde inventare le ossessive cadenze hip hop, il cui flusso litanico scardina sia le regole dello show business sia le strutture della forma-canzone.


Forse nulla di nuovo sotto il sole. Ma il parlare ritmato, i versi in rima, i battiti complusivi appartengono da sempre alle culture sonore neroamericane, dal gospel al vocalese, dal funky al rockjazz, persino al Louis Armstrong di Heebie Jeebies (1926) come del resto dimostra una lunga sequela di stretti rapporti che il rap intrattiene in particolare con il jazz (assai più che con il rock o con il blues) già a partire addirittura dagli anni Settanta con le formule pionieristiche dei gruppi The Last Poets e The Watts Prophets e del cantautore Gil Scott Heron. Nel 1985, sempre a livello di precursori, la fusion band Cargo (diretta da Mike Carr) realizza la canzone Jazz Rap che diventa la title track dell’album Jazz Rap Volume One; tre anni dopo gli Stetsasonic riprendono le melodie dell’organista Lonnie Liston Smith per il brano Talkin’ All That mentre Gang Starr debutta con il singolo Words I Mainfest in cui remixa Night In Tunisia di Dizzy Gillespie; nel 1989 Gang Starr arriva al primo album, No More Mr. Nice Guy, dove il pezzo Jazz Thing viene usato per la colonna sonora di Mo’ Better Blues del regista nero Spike Lee, che narra la storia di un giovane jazzman (Denzel Washington) che in una scena improvvisa appunto un rap.


Nello stesso periodo il collettivo musicale Native Tongues Posse offrendo liriche positive e afrocentriche nonché ritmi ispirati alle tradizioni jazzistiche dà vita a tre differenti gruppi: i Jungle Brothers con Straight Out the Jungle (1988), i De La Soul con 3 Feet High and Rising (1989) e i A Tribe Called Quest con People’s Instinctive Travels And The Paths Of Rhythm (1990) tre album indubbiamente rap ma con un’impronta jazzy. I ATCQ per il susseguente The Low End Theory (1991) richiedono addirittura la collaborazione del grande contrabbassista Ron Carter, mentre i De La Soul per Buhloone Mindstate (1993) vedono il contributo diretto di Maceo Parker, Fred Wesley, Pee Wee Ellis, con Eddie Harris, Lou Donaldson, Duke Pearson, Milt Jackson invece campionati. Anche in Canada i Dream Warriors’ producono And Now the Legacy Begins (1991) con i singoli My Definition of a Boombastic Jazz Style e Wash Your Face in My Sink, dai loop presi rispettivamente da Soul Bossa Nova di Quincy Jones e Hang On Sloopy di Count Basie.


E da lì all’interessamento dei jazzmen verso il rap il passo è breve. Infatti nel 1992 sono Miles Davis con il postumo Doo-Bop (cofirmato assieme al rapper Easy Mo Bee) e il chitarrista nero inglese Ronny Jordan con l’esordio The Antidote (dove si ascolta il rapper Ig Culture accanto a un DJ e alla band) a integrare elementi del rap in un contesto jazzistico. I due album hanno in comune sia la peculiarità di sovrapporre i ritmi presi dall’hip hop su melodie jazz-funk sia soprattutto l’originalità di rappare nuovi versi su alcuni brani. Un altro membro del Golden Quartet davisiano, oltre Carter, Herbie Hancock approda al rap jazz nel 1995 con l’album Dis Da Dum, preceduto, dodici anni prima, dal singolo Rock It, dove lo stile tecno-pop rimanda alla tecnica dello stratching. A differenza del fratello ultrapurista Wynton, il sassofonista Branfort Marsalis da sempre contamina il proprio jazz e non c’è da stupirsi se nel 1994 e nel 1997 propone rispettivamente due album Buckshot LeFonque e Music Evolution in compagnia di Dj Premier dei Gang Starr, mentre nello stesso periodo da un lato Reachin’ (A New Refutation of Time and Space) del trio Digable Planets ottiene grandi elogi critici quale primo album veramente coesivo di jazz rap per via dei campionamenti da Herbie Hancock, Don Cherry, Sonny Rollins, Art Blakey, Herbie Mann, Grant Green, Rahsaan Roland Kirk; epersino Inner City Griots dei Freestyle Fellowship con Aceyalone contiene metriche inusuali e voci influenzate dallo scat improvvisato.


A livello di successo popolare e di ammirazione giornalistica nel 1993 il rapper Guru pubblica il primo volume della serie Jazzmatazz, a cui ne seguiranno altri tre nel 1995, nel 2000 e nel 2007, attuando un concetto molto semplice: riunire il meglio della scena jazz (Freddie Hubbard, Donald Byrd, Courtney Pine, Kenny Garrett, eccetera) e suonare dal vivo assieme a MCs rinomati; e sempre nel 1993, un altro esempio di acid-jazz, il gruppo inglese US3 ottiene un exploit mondiale con il brano Cantaloop (Flip Fantasia), impostato sul vecchio Cantaloupe Island di Hancock mentre nel 1994 Prose combat del franco-senegalese MC Solaar è un’altra riuscita testimonianza di un genere sempre più ampio, purtroppo abbandonato quasi subito dall’autore medesimo. Anche Do You Want More?!!!??! (1995) dell’insieme The Roots, che include MC Black Thought, ottiene un buon riscontro commerciale, nonostante le influenze jazz sui loro lavori vadano diminuendo da allora a oggi.


La prima metà dei Ninenties d’altronde è ricchi sisma di frementi rap jazz: dalla parte del rap si possono ancora citare i Brooklyn Funk Essentials con il loro primo omonimo album (1994), il gruppo Nas in Illmatic (1994), il progetto di Prince chiamato New Power Generation nel cd Gold Nigga (1993) dove sono abilmente fusi jazz, funk and hip-hop; sul versanter jazz invece il camerunense Manu Dibango e i giovani leoni newyorchesi, ad esempio Roy Hargrove con The RH Factor e Steve Coleman con i Metrics fanno interarire i due mondi. Dal 2000 sono invece produttori come J. Rawls, Nujabes, Fat Jon, Madlib, Kero One a realizzare la combine tra jazz e rap: caso abbastanza raro, infine, quello dell’inglese Soweto Kinch che è al contempo MC e sassofonista e che nel 2003 con l’album di debutto ottiene un discreto successo, che prosegue con i tre successivi A Life in the Day of B19: Tales of the Tower Block (2006), The New Emancipation(2010), The Legend Of Mike Smith (2013).