Giuppi Paone – The Acadia Session

Giuppi Paone - The Acadia Session

Zone di Musica – ZDM 1307- 2013




Giuppi Paone: voce

Carl Dimow: flauto, flauto basso

Mark Tipton: tromba

John Clark: basso

Hayes Porterfield: batteria, percussioni




Dopo illustri collaborazioni e una lunga attività concertistica alternata alla didattica, Giuppi Paone pubblica un disco per molti versi sorprendente e di livello certamente ragguardevole. Un vero punto di svolta nella sua prodizione discografica.


Il cd è stato inciso negli USA con musicisti dalle nostre parti poco o per niente conosciuti. Nessuna preoccupazione. Tutti se la cavano egregiamente. Come si legge nelle note di copertina, si è trattato di una seduta di libera improvvisazione registrata così come si è evoluta. Lo testimonia la stessa vocalist italiana: «Abbiamo suonato e suonato senza metterci d’accordo su nulla prima di cominciare un pezzo». Il risultato finale è, allora, ancor più stupefacente perché non si percepiscono nelle dieci tracce momenti di stanca, non si avverte la difficoltà di trovare il bandolo della matassa, non si rilevano sequenze stiracchiate o del tutto pleonastiche. Tutto fila liscio, scivola via che è un piacere. Il repertorio è in gran parte costituito da originali, a firma della Paone, a cui si aggiungono due standards e un brano tradizionale. Sul pezzo di Cole Porter What is this thing called love e su Lover man, in particolare, la cantante offre un’interpretazione speleologica, se così si può dire. Nel senso che va a scavare nel profondo delle canzoni, eseguite da tante grandi voci in precedenza, per portarne alla luce, come un minerale prezioso, un diamante, la pura essenza. E i due classici si distinguono a fatica, inizialmente, per poi rivelarsi nella loro bellezza segreta che tante riprese letterali o superficiali non hanno mostrato.


Nelle sue composizioni, l’artista romana si esprime come uno strumento a fiato, dialogando sul medesimo piano con il flauto di Carl Dimow o con la tromba di Mark Tipton. La sua voce è duttile, elastica, flessibile, ma sostanziosa, in grado di compiere salti di tono notevoli, mai usata in senso virtuosistico. Tutto è comandato, infatti, dalla precisa volontà di interpretare un tema, eterodosso fin che si vuole, in certi casi, ma di cui si vuole offrire una lettura o una rivisitazione coerente e coesa. Non ci sono vocalizzi puntati avventurosamente verso le stelle o parentesi rumoristiche, così per “fare avanguardia”. La materia è sotto attento controllo. Non c’è la rincorsa agli effetti speciali. L’esecuzione è personale e avanzata, ma di carattere jazzistico, con una derivazione laterale nella musica contemporanea e una altrettanto obliqua nel folklore italiano.


Alla riuscita dell’album contribuisce Carl Dimow, autentico asso vincente in questo disco. Il flauto si libra in volo angoloso e pieno di spigoli o plana caldo e discorsivo sullo scat della bandleader.


È impiegato in soli cinque brani ma fa pesare la sua presenza pure Mark Typton con una tromba che va dal soffio al suono sordinato, dallo squillo perentorio al fraseggio deciso e incidente.


Il contrabbasso di John Clark, da parte sua, è tanto rude e sgraziato quanto efficace e in sintonia con quanto gli succede attorno.


Hayes Porterfield, alla batteria, infine, si insinua nelle tracce con parsimonia. Sovente si limita a stare a sentire i partners. Quando interviene, però, riesce a non intaccare, non inquinare l’atmosfera creata dagli altri musicisti. È discreto e pertinente.


Acadia session è sicuramente una prova di maturità per una voce fino ad ora rimasta piuttosto chiusa in un determinato circuito, se non in ombra, almeno in penombra. Si auspica che dopo questo album si cominci a parlare di più, legittimamente, di una cantante, di un’improvvisatrice da tenere nella giusta considerazione all’interno del jazz italiano e internazionale.